E’ salito a 160 il numero delle vittime del massacro di Solhan, avvenuto nella notte tra il 4 e il 5 giugno in un villaggio del nord-est del Burkina Faso, al confine col Niger.
«Il Paese è sotto choc. È dal 2015 che non accadeva un massacro del genere», così si è espressa la Nunziatura Apostolica di Ouagadougou, secondo l’agenzia stampa Fides.
Solhan si trova a pochi chilometri da Sebba, la capitale della provincia di Yagha, dove sono avvenuti numerosi attacchi armati negli ultimi anni, attribuiti ad al-Qaeda ed Isis.
Ma, come ripetono i nostri missionari, il terrorismo sebbene di matrice jihadista non ha nessuna connotazione religiosa, nè tantomeno un chiaro progetto politico.
Quasi in concomitanza con il massacro di Solhan, un altro attacco terroristico, il 4 giugno scorso, stavolta a Tadaryat, nella stessa regione, ha provocato la morte di altre 14 persone.
Già il 17 e 18 maggio quindici civili e un militare erano stati trucidati in due diversi agguati, sempre al nord-est.
Il “Paese degli uomini integri” (quel Burkina Faso del presidente-eroe Thomas Sankara, ucciso nel 1987), pacifico fino al 2015, è segnato da una continua violenza ad opera di jihadisti che portano desolazione e morte.
Nella “terra di mezzo” tra Mali, Burkina Faso e Niger, a predominare sono deserti infiniti e boscaglie, zone non controllate dove è facile per i gruppi armati infiltrarsi passando indisturbati attraverso i confini dei Paesi limitrofi.
Da questi villaggi di frontiera la popolazione fugge incalzata dalle milizie armate che non hanno una chiara identità, nè un progetto politico.
«Abbiamo come due Paesi: uno che avanza, l’altro che muore», racconta padre Paolo Motta da Ouagadougou.
Così la città si riempie e la “campagna” si svuota. La parte non valicabile, off limits è la “zona rossa”, oltre la quale può accadere di tutto e non c’è esercito che regga.