«Bisogna evitare in tutti i modi che questo ultimo capitolo del conflitto (Gaza ndr.) monopolizzi l’intera questione israelo-palestinese. Questo non è un problema tra Hamas e Netanyahu o tra l’esercito israeliano e Gaza.
Il problema sta a monte e riguarda l’oppressione di un intero popolo: è l’occupazione militare, sono gli sfratti e le demolizioni di case palestinesi a Gerusalemme. E’ una politica di apartheid che soffoca la gente».
A dirlo, in questa lunga intervista con Popoli e Missione, è suor Alicia Vacas, missionaria provinciale delle comboniane di Terra Santa.
Alicia vive con sei consorelle a ridosso di Betania – villaggio biblico, oggi cittadina araba di al-Azariyeh in Cisgiordania. Fino al 2010 Betania era parte di Gerusalemme, oggi è divisa dal Muro di separazione costruito da Israele.
Anche la casa delle suore, come altre abitazioni arabe, è stata separata dal resto della comunità. Alcune comboniane vivono dentro i confini del Muro di Gerusalemme, altre invece al di là del Muro e dunque fuori città.
Un paradosso che racchiude in una sola immagine tutta la sofferenza di un popolo avvezzo ai soprusi.
«Casa nostra – spiega la suora – è rimasta a ridosso del Muro, nella parte di Gerusalemme est, e dunque separata dal villaggio di Al-Azariyeh, dalla chiesa e dalla comunità cristiana e dal Deserto di Giuda».
La sofferenza quotidiana dei palestinesi di Gerusalemme e della Cisgiordania occupata militarmente, è secondo la comboniana, all’origine dell’intero conflitto e anche dell’attuale escalation militare.
«Il rischio grosso oggi – spiega Alicia – è quello di perdere di vista il focus: ossia la complessità e il pregresso del conflitto. Con il risultato di andare a cercare il cessate-il-fuoco a Gaza senza andare alla radice della questione e senza risolverla. Il rischio è che tra due anni il bombardamento di Gaza si ripeta».
La vera causa della rabbia dei palestinesi e della reazione violenta del braccio armato di Hamas, argomenta la suora, «è da rintracciare nel quartiere di Sheikh Jarrah, nella chiusura della Porta di Damasco, nella violenza sulla moschea di Al-Aqsa che è una linea rossa invalicabile e nessuno dovrebbe mai attraversarla».
La moschea di Gerusalemme, dice suor Alicia, «è qualcosa di iconico e simbolico che a nessuno verrebbe in mente di toccare».
Eppure questa linea rossa è stata varcata più volte dall’esercito: «Noi non abbiamo il diritto di polarizzare il conflitto guardando solo all’ultima sequenza dell’intero film: quella tra Hamas e l’esercito».
Tutti i diritti delle persone sono soppressi in Palestina, prosegue la provinciale delle comboniane: «è impossibile costruire, crescere, studiare, viaggiare, incontrarsi, andare al mare, per i palestinesi. Ma queste cose hanno un prezzo alla lunga e quello che crea nella gente è tanta rabbia e ignoranza. Da questa violenza non può nascere un gesto di pace. Dalle umiliazioni quotidiane non nasce la pace».
Le comboniane di Betania sono diventate un simbolo di resistenza e anche di testimonianza da una delle frontiere del Medio oriente:
«nel 2010 abbiamo aperto una nostra presenza anche dall’altra parte del Muro dove abitano due nostre sorelle. Separate da questo cemento alto otto metri, ci parliamo dalle finestre. Il Muro ci costringe a fare un giro di 18 km ogni volta che vogliamo incontrarci, quando i check point sono aperti».
«Qui ci sentiamo un po’ a casa – sostiene Alicia – non lo abbiamo scelto noi, ma se bisogna starci, in questo conflitto, allora è giusto che ci stiamo così, alla frontiera. Qui abbiamo una scuola materna che ha sofferto molto per la creazione del Muro. A livello pastorale ci occupiamo anche dei beduini del deserto, che sono la popolazione più emarginata della Palestina».
Una missione che porta con sè un profondo valore evangelico:
«Quando i pellegrini vengono a stare da noi, a Betania, mostriamo loro il Muro e diciamo che qui possono vedere l’incarnazione della passione e anche la resurrezione».
Perchè il vangelo in Palestina si è fatto carne.