Lo sappiamo da sempre ma lo abbiamo sperimentato da vicino solo con la tragica morte del nostro ambasciatore Luca Attanasio e della sua guardia del corpo, Vittorio Iacovacci: la Repubblica Democratica del Congo è una terra non pacificata, ricchissima (divorata da un’economia predatoria) e dilaniata.
Soprattutto la regione del Nord Kivu ad est, è frammentata (la “mitosi cellulare” delle milizie è cosa nota) ed infiltrata (l’Uganda è presente tramite l’Adf e il Ruanda tramite l’Fdlr).
Da anni è in corso un progetto di ‘balcanizzazione’ del Paese, ossia un tentativo da parte dei Paesi limitrofi (Uganda e Ruanda), di appropriarsi di fette di territorio congolese: lo affermano gli analisti e lo denuncia con forza la Chiesa cattolica congolese.
Ma c’è un’altra questione scottante che resta aperta: quella dell’inerzia della Monusco, la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite, in Congo dal 1999.
Di fronte alla violenza armata «non interviene» e anzi, alimenta il caos e la rivalità tra le milizie, denuncia la gente. Le proteste degli attivisti di Lucha contro la Monusco si sono accentuate in questi ultimi mesi, con l’apice di aprile a Beni e Goma.
«Chiediamo solo due cose: che la Monusco se ne vada e che il governo congolese si assuma le sue responsabilità in modo che noi possiamo vivere in pace».
Ha dichiarato ad Al Jazeera Clovis Mutsova, attivista di Lucha durante una delle proteste a Beni lo scorso 8 aprile, duramente represse dalla polizia. Perchè questa immobilità delle Nazioni Unite?
Eppure il Congo è in mano a 122 milizie armate che imperversano da almeno 20 anni tra Ituri, Sud Kivu, Nord Kivu e Tanganika: la Chiesa locale parla di massacri etnici e i nostri missionari di ‘carnage’. Nella Diocesi di Butembo-Beni i massacri sono quotidiani.
Il popolo vive schiacciato tra il rischio della violenza quotidiana ad opera delle milizie ed il predatorio sfruttamento nelle miniere: gli schiavi sono donne e bambini che scavano per estrarre coltan, oro, quarzo, rame.
«“Ogni giorno cammino due ore per venire fin qui”, dice Nema Muyengo, con il sudore che le cola dalla fronte. “L’unica cosa che faccio è frantumare pietre”», racconta il mensile Africa.
«Sono le mamas twangaises a cui spetta il compito di frantumare i massi manualmente. Con pesanti martelli di legno dalla punta metallica, battono ripetutamente le pietre di quarzo, mentre il gestore del sito ne osserva compiaciuto i movimenti.
Queste donne rappresentano la categoria più bassa e discriminata della piramide estrattiva», si legge ancora.
Come se non bastasse, il quarzo è tossico e decine di donne vengono ricoverate ogni mese per tubercolosi.
Circa la deliberata volontà delle milizie ruandesi e ugandesi di mettere in atto una pulizia etnica in Congo, con la complicità delle autorità ruandesi, le testimonianze sono molte.
La Conferenza episcopale congolese parla senza peli sulla lingua di “genocidio” etnico e in particolare di «massacro pianificato» del popolo Nande nel Nord Kivu. Il risultato è una “balcanizzazione” del Congo ad est, dicono senza ombra di dubbio missionari e Chiesa ufficiale.
«La popolazione civile di Beni e Lubero è soggetta a massacri pianificati, assassinii mirati di individui influenti e rapimenti orchestrati ed eseguiti da stranieri, presumibilmente ribelli dell’Adf, gruppo ugandese che opera sul territorio congolese in tutta impunità dal 1986», si legge in uno dei dossier della diocesi di Butembo Beni.
«Ricorda il modus operandi del genocidio ruandese: massacri all’arma bianca (uso di machete, asce e coltelli), espulsione dai campi».
Dal 2012 ad oggi le sparizioni forzate e «le esecuzioni sommarie hanno gettato nella disperazione migliaia di famiglie congolesi, sotto gli occhi delle autorità militari e politico-amministrative del Congo», si legge.
«Io sono nato qui: la zona era molto tranquilla prima, c’era una buona convivenza col Ruanda, ci sono persone originarie del Ruanda con le quali siamo cresciuti pacificamente, nel 1994 dopo il genocidio.
Poi nel 1996 hanno cacciato quelli che erano al potere e che sono venuti a rifugiarsi in Congo», ci spiega padre Robert Kasereka Ngongi, sacerdote diocesano, originario di Butembo.
Altri interlocutori smorzano i toni sul genocidio.
«La diplomazia internazionale, in particolare quella anglosassone, adora Paul Kagame l’attuale presidente del Ruanda: lui è l’uomo che ha messo fine al genocidio – spiega l’antropologo Luca Jourdan – Il rumor sul fatto che esista un complotto tutsi lo sento da sempre: ma io non credo che ci sia un progetto genocidario del Ruanda sul Congo».
In mezzo, tra milizie violente e governi corrotti, tra alleanze opache e disegni genocidari, c’è un popolo che resiste, nonostante tutto.
Tra i movimenti dal basso che tentano di frapporsi al potere ufficiale, alla censura, alla repressione e alla corruzione, c’è come dicevamo Lucha, nato a Goma nel 2012 e che dà molta speranza.
I giovani di Lucha sono riconosciuti dagli attivisti internazionali e sostenuti dalla ong Front Line defenders, difensori dei diritti umani. «Ma avviare un processo significa dare il tempo di maturare ai fermenti che avvengono dentro la società», dice Touadi.
Il tempo qui è oro, e ogni giorno passato nell’attesa e nell’inerzia, lascia spazio ad altri massacri.
(La foto in apertura è di Alexis Huguet / Afp. Nel distretto di Masiani, Beni, civili bersaglio dei ribelli ugandesi).