Conobbi padre Tarcisio Pazzaglia negli Anni Ottanta a Kampala. Loyarmoi il “grintoso oratore”, era il suo nome acholi.
Fu questo straordinario missionario comboniano, giunto in Uganda nel lontano 1964, che m’introdusse alla cultura dei popoli nilotici.
Gli anziani da quelle parti sono soliti radunare i giovani attorno a un fuoco per tramandare loro un’ancestrale saggezza, raccontare le storie del passato e le straordinarie imprese degli avi.
Io ebbi la fortuna più o meno di fare lo stesso, trascorrendo molto tempo con questo missionario che m’introdusse nell’ardua e graduale comprensione di culture anniluce distanti dal nostro immaginario.
Con padre Tarcisio ebbi modo di viaggiare in lungo e largo sul vasto territorio dell’Uganda settentrionale: un’immensa pianura ondulata, con un’estensione di circa 50mila chilometri quadrati, rotta di quando in quando da qualche boscaglia e da montagne rocciose che si ergono maestosamente e danno un’immagine plastica a un paesaggio in cui il cielo equatoriale sembra abbracciare tutto ciò su cui veglia.
Vi sono immense savane, nella stagione delle piogge dall’erba altissima, con qualche boscaglia in cui è possibile trovare refrigerio quando il sole è allo zenit.
Un giorno, durante la stagione delle piogge, padre Tarcisio mi portò lungo uno degli argini del fiume Asswa e lì incontrammo, oltre ai soldati, un numero indicibile di scimmie. Mi spiegò che l’etnia acholi ha proprio su questi primati una teoria opposta a quella darwiniana: gli uomini non discendono dalle scimmie, ma al contrario questi animali in origine erano ragazzi che, stanchi di lavorare al villaggio, fuggirono nel bosco e passarono la loro vita a zonzo.
Secondo gli acholi, i movimenti delle scimmie, che somigliano tanto a quelli degli uomini, non sono in realtà altro che un retaggio ancestrale, ciò che si tramanda di generazione in generazione da quei giovani vagabondi che preferirono la savana alle fatiche dei campi.
Padre Tarcisio da sempre è stato l’esatto contrario, tutto adrenalina, fervore entusiasmo e slancio nell’annunciare e testimoniare il Vangelo. Nei suoi oltre 50 anni di vita missionaria, realizzò un numero indicibile di scuole, dispensari, chiese e cappelle, rivelandosi al bisogno muratore, falegname, infermiere, oltre che essere sempre e comunque uno zelante pastore d’anime.
Aveva un hobby a cui non ha mai rinunciato, quello delle riprese filmiche, prima con il Super Otto, poi con le telecamere. Realizzò moltissimi documentari sugli usi e i costumi degli acholi e sussidi video per la catechesi dei giovani e degli adulti.
Dall’inizio degli anni Novanta si prodigò, in particolare, nel difendere i diritti umani contro le aberrazioni perpetrate dagli olum (“erba”, in lingua acholi), i famigerati ribelli dell’Esercito di Resistenza del Signore. Si trattava di giovani rapiti dagli olum e costretti a combattere contro le milizie governative ugandesi del presidente Yoweri Museveni.
Tra ribelli e governo andò avanti per un ventennio una guerra assurda e dimenticata dal mondo e a farne le spese furono migliaia di ragazzi e ragazze costretti a combattere, pena la mutilazione di orecchie, naso, labbra e dita. Tutte le sere, nelle parrocchie di padre Tarcisio, quelle di Pajule e Kitgum, arrivavano centinaia di giovani dai villaggi vicini che cercano protezione per la notte, momento nel quale gli olum tentavano il rapimento.
Con padre Tarcisio l’amicizia è lievitata negli anni, soprattutto quando, il 28 agosto 2002, fummo sequestrati a Tumangu, non lontano da Kitgum, assieme a Carlos Rodriguez Soto. In quella circostanza ci confrontammo, insieme, ripetutamente, con “Sorella morte”… anche se poi – come diceva padre Tarcisio – «non fummo considerati degni del martirio».
Fu proprio lui ad assolvermi poco prima che finissimo di fronte al plotone di esecuzione. E se riuscimmo a salvarci, miracolosamente, fu proprio perché tutti e tre invocammo l’intercessione di padre Raffaele Di Bari, ucciso dai ribelli dell’Esercito di Resistenza del Signore (Lra) il 1 ottobre 2000.
Padre Tarcisio è stato un autentico “casco blu di Dio” che ha speso la propria vita per la causa del Regno. E sono certo che prima di spirare abbia colto il sibilo del Malaika Rubanga, in lingua acholi, l’Angelo di Dio che chiama le anime sante.
- Questo editoriale comparirà del numero di marzo di Popoli e Missione
- Foto tratta dal sito Trip down memory lane