La Guinea Conakry, Paese dell’Africa Occidentale bagnato dall’oceano Atlantico, è di nuovo sotto la mannaia dell’Ebola, virus letale della febbre emorragica.
Le persone decedute finora sono cinque, ma solo di tre di esse si ha certezza che la morte sia dovuta ad Ebola. I casi di contagio accertati sono sette e le persone a rischio, perchè entrate in contatto con le vittime, circa quarantaquattro.
Inutile dire che in questa porzione di Africa occidentale già molto provata da altre emergenze sanitarie – morbillo, febbre gialla e Covid – oltre che da un’economia in calo, si riapre una vecchia ferita niente affatto rimarginata. E torna la paura tra la gente, nelle strade, casa per casa.
«Le persone hanno più paura della febbre emorragica che di qualsiasi altro virus», ci conferma al telefono Adramet Barry, coordinatore della Ong Servizio di Pace-Lvia. Nei tre anni in cui la malattia ha fatto la sua comparsa in Guinea, tra 2013 e 2016 i morti sono stati più circa 11mila e 300 e il virus si è poi diffuso anche in Sierra Leone e Liberia.
«La cosa peggiore è la velocità di trasmissione del virus e soprattutto la facilità con cui passa da persone a persona», dice ancora Barry.
«E’ motivo di grande preoccupazione vedere il ritorno dell’Ebola in Guinea, un Paese che ha già sofferto tanto per via di questa malattia – ha dichiarato Matshidiso Moeti, medico e direttore regionale della Organizzazione Mondiale della Sanità per l’Africa.
L’esperienza maturata durante l’ultima ondata pandemica, conclusa nel 2016, quando il virus era stato debellato in Guinea, «fa sperare in una ripresa e in una capacità di arginare l’infezione», perchè in quegli anni era stato messo a punto un ottimo team di personale sanitario sostenuto dall’Oms, che poi venne impiegato anche in Repubblica Democratica del Congo.
Non facile è tenere la popolazione in quarantena, ed evitare il contatto: «In Africa i funerali sono sempre un rischio quando ci sono epidemie in corso – spiega Alexandre Kolié, direttore della Caritas diocesana di N’Zerékoré – ed è molto difficile impedire il contatto tra le persone».
Al termine di una riunione con il Tavolo di gestione della crisi, il 15 febbraio, presieduto dal ministero della Sanità, «abbiamo la conferma di altre 44 persone a rischio – prosegue Kolié – È necessario metterle in stretta quarantena, ma per ora non possiamo farlo perché non è stata avviata nessun cordone sanitario che permetta di assistere chi deve restare in casa, e soprattutto che fornisca cibo e medicine».
(La foto in apertura è tratta dal sito del WHO)