Li avevamo lasciati nelle strade e nelle piazze del venerdì mattina, a gridare “Stop climate change” assieme a Greta Thunberg; con i loro manifesti sugli orsi polari e l’urgenza di tenere desta l’attenzione dei “grandi” sul clima.
Li ritroviamo tre anni dopo al Mock Cop26 (vertice parallelo a quello dei leader mondiali di Glasgow, slittato di un anno), a dettare l’agenda internazionale.
Con tanto di bozza di Trattato (107 pagine e analisi Paese per Paese) sul clima e raccomandazioni ferree da presentare ai ministri per scongiurare la catastrofe.
I giovani attivisti dei Paesi in via di sviluppo, e di quelli più ricchi, sono compatti e decisi; preparati e culturalmente solidi.
La stessa Greta compie 18 anni ed è ulteriormente cresciuta dal punto di vista intellettuale. Ben 350 di questi ambientalisti provenienti da 140 Paesi si sono incontrati sulle piattaforme virtuali nei giorni prenatalizi (quelli in cui avrebbe dovuto svolgersi il summit “vero” per intenderci). Intervistati dai giornali – soprattutto dalla stampa di settore, da The Ecologist a Climate Home ma anche dall’Economist e The East African – parlano con serietà e determinazione.
Clicca qui per leggere l’articolo su The Ecologist.
Di tifoni, soglie di tolleranza, gradi centigradi, emission gap e carbon neutrality, ossia l’azzeramento delle emissioni nette di CO2. Ma anche di come si sentono loro (con ansie, paure e frustrazioni) e di come vorrebbero che le nazioni rispondessero ad un’emergenza non più procrastinabile.
«Basta tergiversare sul clima – dice la ventitreenne filippina Mitzi Jonelle Tan, intervistata da Vox – Nei prossimi cinque anni io voglio avere speranza. Non posso più temere che le inondazioni consumino le fondamenta di casa mia. Abbiamo bisogno di politiche proattive di adattamento climatico mirate ai paesi del Sud Globale che sono quelli più aggrediti dalla crisi climatica». (Clicca qui per l’intervista).
Le fa eco Nakabuye Hilda Flavia, coetanea ugandese ritratta da Vogue: «I Paesi in via di sviluppo contribuiscono meno di quelli sviluppati ai cambiamenti climatici, ma ne subiscono le peggiori conseguenze – spiega lei che è fondatrice di Fridays for Future Uganda – L’Africa contribuisce per meno del 4% alle emissioni globali, però è la più colpita. Noi subiamo alluvioni, alte temperature, siccità, carestie e ondate di calore».
Una delle prime richieste, spiegano a The Ecologist (il pezzo titola “why we created Mock COP26 Treaty”) è quella che va sotto la voce “Climate Education”, ossia educazione climatica.
Perché questi ragazzi sanno bene che garantire un’istruzione su materie scientifiche inerenti il clima, è il presupposto fondamentale per capire cosa accadrà domani e per pretendere che vi sia posto rimedio.
Inoltre, i giovani attivisti sanno che i target dell’accordo di Parigi (quello raggiunto a COP21 nel 2015, e mai realizzati) oramai sono obsoleti.
Erano poco ambiziosi anche allora, ma adesso non reggono più. Nel frattempo la linea del surriscaldamento e dei cambiamenti si è impennata e più tempo passa più è difficile tornare indietro. A Parigi, i Paesi Parti concordarono (se ne tirarono fuori Usa e Cina) di mantenere l’aumento medio della temperatura mondiale ben al di sotto dei 2 C rispetto ai livelli preindustriali, e di puntare a limitare l’aumento a 1,5 C. Obiettivo mancato.
Nelle loro attuali raccomandazioni i ragazzi chiedono che i programmi e le leggi adottati da ciascuno Stato «siano allineati con la richiesta dell’IPCC (il panel delle Nazioni Unite sul clima, ndr.), per limitare il riscaldamento sotto la soglia dell’1,5 °C».
Ma vorrebbero però che in più specificassero come intendono farlo; per gli attivisti giovani non basta scrivere che ognuno si atterrà ai termini prescritti, bisogna che dicano come e quando.
E fissino paletti e priorità. I ragazzi vogliono concretezza non parole al vento. Finora, peraltro, come spiega Lifegate, i documenti necessari per dettagliare in che modo ciascun Paese intende operare per contrastare il riscaldamento globale, «sono stati consegnati soltanto da quindici Stati, tra i quali figurano quelli più vulnerabili di fronte ai cambiamenti climatici: Isole Marshall, Suriname, Zambia, Ruanda o ancora Tailandia».
I giovani colpiscono l’attenzione anche per un’altra ragione: sono molto consapevoli di sé stessi e del proprio ruolo fondamentale.
«Siamo qualificati per maneggiare il potere», dice con molto orgoglio e poco ego, Salina Abraham, figlia di rifugiati eritrei, nata in Olanda, alla guida del percorso verso Youth4Climate di Milano, il prossimo incontro in agenda il 28 settembre 2021, in preparazione a Glasgow.
«Le nostre prospettive vanno incluse nelle decisioni, servono canali politici di ascolto, oggi c’è una marea di barriere contro una partecipazione reale, l’evento di Milano è un buon inizio per abbatterle», spiega Salina al quotidiano Domani.
E qui sta il punto: le loro proposte vanno prese seriamente perché i giovani sono diventati i primi watchdog, cani da guardia del clima. Controllano cosa fa chi ha potere a riguardo, e sono pronti a chiedere il conto.
(Questo articolo è stato pubblicato sul numero di febbraio di Popoli e Missione, appena uscito).
La foto di apertura è tratta dal sito web degli attivisti: MockCop.