Aborigeni e non, insieme per una nuova Australia

Padre Bruno Carrera, sacerdote del Movimento dei Focolari e missionario in Australia da 17 anni, a fianco dei giovani.

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Il 26 gennaio si festeggia l’Australia Day. Ma secondo la Chiesa locale la festa nazionale dovrebbe in realtà essere spostata al 27 maggio. Perchè?  

Succede spesso che la Chiesa locale di un determinato Paese intuisca l’importanza di una problematica in un particolare contesto sociale e diventi l’apripista per affrontarla, fare proposte, trovare soluzioni.

E’ accaduto anche in Australia, dove la Conferenza episcopale ha istituito da anni un organismo denominato “Commissione cattolica nazionale degli aborigeni e degli abitanti delle Isole dello Stretto di Torres”, un modo per riconoscere la centralità di queste popolazioni nella società e nella Chiesa australiane, e dare loro voce e visibilità.

Occorre ricordare, infatti, che la convivenza tra i popoli indigeni di questo Paese e gli abitanti di origine inglese che discendono dai colonizzatori è ancora problematica, in quanto l’integrazione tra i due gruppi, che spesso si sentono estranei l’uno all’altro, è tutt’altro che completata.

Un esempio che testimonia quanto ci sia ancora da lavorare in tal senso è l’Australia Day, ovvero la festa nazionale che è fissata per il 26 gennaio, ma secondo la Commissione cattolica nazionale degli aborigeni e degli abitanti delle Isole dello Stretto di Torres, dovrebbe essere spostata al 27 maggio.

Per comprendere la proposta di cambio data, c’è da sapere cos’è accaduto in queste due ricorrenze. Il 26 gennaio 1788 la prima flotta inglese sbarcò a Port Jackson, l’attuale porto di Sydney, e fu annunciata la creazione di una colonia penale inglese.

Da questo momento la terra australiana – abitata da sempre dagli aborigeni – subì grandi trasformazioni: furono fondate città, vennero occupate terre per coltivazioni e allevamenti, aumentò il numero dei coloni europei. Allo stesso tempo, però, i popoli indigeni videro sottrarsi spazi, a volte anche con la violenza, e subirono ingiustizie e vessazioni perpetratesi per oltre un secolo.

Il 27 maggio 1967, invece, si svolse il referendum con cui gli elettori scelsero di riconoscere alle popolazioni locali gli stessi diritti dei cittadini australiani, fino a quel momento negati.

Secondo la Commissione, continuare a celebrare la festa dell’Australia in un giorno che evoca ricordi dolorosi per gli aborigeni, è una scelta sbagliata: spostarne la data, invece, sarebbe utile per gettare una nuova base su cui far crescere insieme la nazione.

A scuola daMungo Man

Al di là dell’Australia Day, è fuori dubbio che sia indispensabile investire sulle giovani generazioni per creare una società più giusta, integrata, rispettosa delle minoranze. Lo ha compreso perfettamente il Movimento dei Focolari, di cui fa parte padre Bruno Carrera, missionario italiano che vive in Australia da 17 anni.

La sua base è a Melbourne, ma – come usa dire il sacerdote – «gira un po’ per tutta l’Oceania, a seconda delle necessità».

Una gran parte della missione del Movimento è concentrata sull’impegno con i giovani australiani: tra le varie iniziative in cantiere, ci sono anche occasioni di conoscenza reciproca e di collaborazioni tra aborigeni e non.

A tale proposito, padre Carrera racconta di un’esperienza particolarmente incisiva vissuta con 40 adolescenti provenienti da varie parti dell’Australia e della Nuova Zelanda, che hanno trascorso una settimana in un campo-scuola all’interno del quale l’interazione con gli aborigeni è stata importante.

L’incontro più forte? Quello durante la visita al Parco nazionale del Lago Mungo, nello Stato australiano del Nuovo Galles del Sud: la scoperta dei resti di due persone, ora conosciute come Mungo Lady” e “Mungo Man, sepolte qui 42mila anni fa, ha attirato su questa località l’attenzione del mondo e ha suscitato un grande orgoglio tra gli aborigeni.

«Utilizzando un concetto più volte ripetuto da papa Francesco – spiega padre Carrera – il camp impegnava testa, mani e cuore dei giovani.

Così, durante la settimana i ragazzi hanno imparato molti insegnamenti dagli aborigeni. I giovani del Focolare hanno sperimentato la gioia di dedicare tempo e talenti per gli altri, al servizio della comunità in quella stessa settimana.

Inoltre attraverso momenti di preghiera e condivisione hanno riflettuto su ciò che avevano vissuto e imparato».

Tornano alla mente le parole pronunciate da san Giovanni Paolo II quando incontrò il popolo aborigeno nel 1986: «Voi siete parte dell’Australia e l’Australia è parte di voi.

La Chiesa stessa in Australia non sarà pienamente la Chiesa voluta da Gesù finché non avrete portato il vostro contributo alla sua vita e finché questo contributo non sarà stato accolto con gioia dagli altri».

Ecco, l’esperienza del campo-scuola «ha certamente aperto gli occhi e il cuore dei giovani in questo senso e ha permesso loro di crescere nella conoscenza e nella meraviglia suscitata dalla cultura dei “primi popoli” di questa terra», conclude padre Carrera.

I giovani al centro dell’impegno missionario

La missione cattolica in Oceania non si ferma sul territorio australiano. Sempre concentrata sul protagonismo delle giovani generazioni, l’équipe del Focolare – insieme ad altre organizzazioni e a rappresentanti della Chiesa locale – ha contribuito ad animare un’esperienza giovanile anche nella diocesi di Suva.

Stavolta il campo-scuola si è tenuto nella parrocchia di Sant’Anna a Napuka, sull’isola di Vanua Levu, la seconda (per estensione) delle Isole Fiji.

«Lavorare insieme con diversi carismi ed espressioni della Chiesa locale è stata una grazia molto speciale per tutte le persone coinvolte», è stato il commento di alcuni partecipanti, ricordando la presenza di altre realtà ecclesiali come la Caritas diocesana e le suore Mariste.

Ai giovani figiani è stata riproposta la ricchezza delle loro tradizioni, valorizzando i numerosi semi della Parola presenti nella cultura delle Isole Fiji.

Altri temi trattati sono stati: la disponibilità della popolazione locale nel reagire ai disastri quando si verificano i cicloni, la lotta agli abusi e alla violenza domestica, la responsabilità per l’ecologia e i cambiamenti climatici.

«Durante il camp – conclude il missionario – i giovani hanno anche preso parte ad un’azione ecologica, piantando mangrovie per rallentare l’erosione causata dall’innalzamento del livello del mare e raccogliendo rifiuti lasciati lungo la costa».

Alla fine dell’esperienza, tutti hanno sentito più vivo l’invito a mettere i propri doni a servizio della realtà nella quale vivono, per costruire una società più integrata e rispettosa.

(Questo articolo è stato pubblicato sul numero di dicembre di Popoli e Missione).