Il Burkina Faso (il cui nome letteralmente significa ‘Paese degli uomini integri‘), appare sempre più insicuro e soggetto ad episodi di razzia e violenza.
L’uccisione di padre Rodrigue Sanon, scomparso il 20 gennaio scorso mentre era in viaggio verso Banfora, e ritrovato cadavere nella foresta, non è un caso isolato.
In questo Paese del Sahel (come anche in Niger e in Mali), in particolare nelle zone di confine lontane dalla capitale, la vita della gente comune è segnata dalla fuga continua.
Dalle zone del Burkina sotto attacco si scappa, come spiega l’Unhcr, per raggiungere i campi profughi come quello di Goudoubo, che ospita tra l’altro 3mila maliani. Gli sfollati interni qui sono migliaia.
«In Burkina gli sfollati sono più di un milione… E’ il secondo o terzo Paese con più sfollati interni dopo la Siria», ci spiega padre Paolo Motta, missionario della Comunità di Villaregia, dal 2017 nella capitale Ouagadougou.
Le famiglie sono sempre a rischio e i gruppi armati legati alle galassie jihadiste sempre in agguato. A morire non sono solo i sacerdoti, ma gli abitanti dei villaggi, sia cristiani che islamici moderati.
«Il vescovo quattro anni fa ci ha proposto di assumere un’intera parrocchia, perchè Ouagadougou è una città in grande espansione. Si parla di una crescita annua compresa tra il 5 e il 7%! La gente arriva qui dai villaggi di frontiera, un po’ perchè è più facile trovare lavoro e in parte per via del terrorismo, che costringe a lasciare le case e la terra», racconta.
«Dove prima c’era una parrocchia ora ne servono due o tre– spiega padre Paolo – e così ogni due anni sorgono nuove comunità. Ci è stato affidato un territorio di una trentina di km quadrati, e ci occupiamo di due villaggi: Sandogo più vicino alla città, e Bouassà, più periferico e meno abitato, per un totale di 75mila abitanti».
«Storicamente, nella chiesa burkinabè, la parte clericale è meno sviluppata e il laicato è assicurato dalla gente locale. Noi ci siamo inseriti in una struttura di Chiesa che era preesistente. Abbiamo 5mila catecumeni. I giovani sono più di 800».
Padre Paolo racconta di una convivenza pacifica con i musulmani, nella quotidianità: «Noi viviamo in una casa in affitto, e abbiamo un vicino musulmano a destra e uno a sinistra. Con nessuno di loro ci sono problemi! – dice – Ci invitano a cena, ci scambiamo gli auguri per Natale e per il ramadan. La scuola è un grande focolare di interculturalità».
Negli ultimi anni però un Islam più radicale si è impossessato di alcune moschee e si nota una maggiore tendenza ad usi e costumi più castigati, soprattutto per quanto riguarda l’abbigliamento delle donne.
«Quando vai a scuola e ti innamori della ragazza o del ragazzo che appartiene alla religione diversa dalla tua, come fai? Di solito sono le ragazze che si convertono alla religione del marito, ma alcune famiglie sono molto radicali e non consentono ai ragazzi di sposarsi; devono rinunciare al loro sogno d’amore».
Eppure, il vero dramma non è la religione: sono i gruppi armati, terroristici, che hanno come scopo quello di «far cassa e alimentare commerci illeciti, aiutati dal fatto che i confini sono labili e i controlli molto poco efficaci».
Bastano pochi uomini armati per mettere a ferro e fuoco i villaggi: «sparano o minacciano e la gente ha paura: se fai così ogni giorno in un villaggio diverso, anche se non hai il controllo del territorio, hai seminato un terrore tale che la gente o ti obbedisce o se ne va».
Una parte del Burkina è zona off limits: la chiamano la zona rossa, la frontiera da non superare perchè lì troverai terreni minati e jihadisti in agguato. Nel mirino ci sono soprattutto i cristiani, anche perchè sono minoranza: appena il 2% dei 20 milioni di burkinabè.
«La dissoluzione della Siria e le guerre del Medio oriente hanno spostato qui nel Sahel la frontiera del terrorismo», dice padre Paolo. E nella chiesa i superstiti trovano rifugio e consolazione.