Nel guardare la storia recente, quella del secondo dopoguerra, dagli anni ’60 del secolo
scorso e fino almeno alla grande crisi finanziaria iniziata nel 2008 su scala mondiale, dell’Italia si è
parlato di “miracolo economico”, come di qualcosa di talmente poderoso da ritenerlo dovuto ad
una particolare grazia soprannaturale, più che alla caparbietà degli italiani: lavoratori, imprenditori,
governanti e istituzioni pubbliche e private.
Insomma, si riconosce più facilmente il miracolo, che non coloro che l’hanno compiuto (a meno che non si vogliano attribuirne tutti i meriti al solo signor Marshal, ideatore dell’omonimo Piano Marshal!).
Con l’avvio di una mutualità pubblica, ad esempio, ai cittadini veniva garantita la possibilità di accedere all’assistenza sanitaria con standard di prim’ordine. Hanno così iniziato ad assumere dimensioni che davvero a quel tempo parevano fenomeni miracolosi: trapianti di cuore, operazioni chirurgiche con cui si ridava la vista ai ciechi, o si facevano camminare gli infermi.
Come ebbe a dire provocatoriamente un amico parroco in un’intervista pubblicata su un giornale locale, quando, con successo, negli anni ’80 gli fu trapiantato un rene: «in questi casi si può parlare di miracolo, sì, ma della scienza e della medicina».
E non è forse un caso se proprio in quegli anni aveva inizio in modo diffuso, anche sulla
spinta del Concilio Vaticano II e delle sollecitazioni del Magistero di Paolo VI e, successivamente, di
Giovanni Paolo II, l’impegno terzomondista e pacifista e poi anche ambientalista di molti cattolici
laici, per sostenere progetti di sviluppo e di solidarietà internazionale.
«Lo sviluppo è il nuovo nome della pace», afferma Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio (1967). Nasce allora, infatti, il volontariato internazionale di matrice cristiana, per dare manforte alla promozione umana già in altra forma sostenuta dalla Chiesa con l’enciclica missionaria Fidei donum, di Pio XII (1957), che apriva anche ai laici l’orizzonte missionario, in particolare dell’Africa, riconoscendo loro un ruolo particolare nel radicamento sociale delle giovani Chiese locali.
A partire soprattutto dai primi anni ’70, migliaia di giovani, uomini e donne, singoli, coppie e
famiglie con figli hanno dedicato e molti ancora stanno offrendo alcuni anni della propria vita per mettere a disposizione delle popolazioni più emarginate dei cosiddetti Pvs (Paesi in via di sviluppo) le loro capacità e competenze umane e professionali, sospinti dalla radicalità del messaggio evangelico, con totale spirito di gratuità, di solidarietà e di condivisione.
Se da un lato troviamo l’associazionismo di matrice cristiana organizzato in forma di Ong
(Organizzazione non governativa), che risponde ad una “vocazione” laicale protesa verso la
NotiCum – Il volto della missione || Anno 57 – n. 12 – Dicembre 2020 realizzazione di progetti di sviluppo nell’ambito di programmi di cooperazione internazionale, dall’altro lato della stessa medaglia che raffigura la presenza laicale nella chiesa e nel mondo, incontriamo laici che fanno generalmente capo agli Uffici e Centri missionari diocesani, inseriti in un servizio alle giovani chiese sorte in quello che un tempo era identificato come “Terzo Mondo”, per rispondere alla specifica “chiamata” della missione ad gentes caratterizzata dal binomio inseparabile “evangelizzazione e promozione umana”.
Le specificità di carismi e di ministeri hanno fatto sì che la evangelizzazione diventasse di stretta competenza del clero e dei religiosi, mentre la promozione umana fosse demandata, almeno nelle fasi esecutive, ai laici. Risulta del tutto evidente, però, che una semplificazione così schematica dei ruoli all’interno della missione non corrisponde ad una realtà intrinsecamente più complessa.
Quando alla definizione delle due gambe che fanno camminare la missione, cioè l’evangelizzazione e la promozione umana, cerchiamo di dare un contenuto diverso dal mero esercizio di una “professione” del tipo: “al prete compete l’evangelizzazione e al laico la promozione umana”, ci
accorgiamo che l’esperienza missionaria, quella ruspante fatta da preti e da laici che si sporcano i
piedi camminando insieme scalzi nelle risaie per “evangelizzare” e “promuovere” i contadini (cosa
che mi è capitato di fare ormai tanti anni fa in Guinea Bissau), si arricchisce
proprio da una continua “contaminazione” tra i carismi e i ministeri che in essa vengono espressi, seppure nei limiti che ben conosciamo.
E’ forse quel camminare insieme scalzi, per andare incontro ai poveri, che porta alla scoperta delle reciproche virtù e debolezze, perché non si può evangelizzare senza assolvere al dovere di promuovere la dignità e i diritti della persona, così come non possiamo chiamare promozione umana ciò che non conduce alla scoperta gioiosa del vangelo, al volto di Gesù.
Sì, proprio lui, Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, il primo missionario “laico” al cui volto ogni battezzato, in quanto discepolo missionario, dovrebbe guardare per ritrovarlo riflesso specialmente nello sguardo dei sofferenti e degli impoveriti a causa dell’ingiustizia e dell’indifferenza.
(Articolo pubblicato sul NotiCum di dicembre).