A gennaio 2021 entrerà in vigore un importante regolamento europeo sui “minerali insanguinati”, primo fra tutti il coltan. L’obbligo per le aziende sarà quello di garantire la provenienza pulita dei metalli usati nei nostri cellulari. Il cobalto però sfugge ai controlli. Perché? A monte resta il problema della tracciabilità.
Nel Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo, la proliferazione di miniere di coltan e cobalto – utilizzati per le batterie dei nostri cellulari e per quelle al litio delle auto elettriche – è motivo di guerra tra gruppi armati che si contendono il territorio. La tantalite (lega metallica che dà vita al coltan assieme al columbo) è componente fondamentale di video-camere ed apparecchi high tech.
Ma la loro estrazione illegale provoca centinaia di morti ogni anno, anche tra i bambini. Lavorare con le mani nel fango, sottoterra, per 12 ore al giorno a dieci anni d’età per portare a casa pochi dollari al mese, è una costante da quelle parti.
«Con il blockchain abbiamo finalmente lo strumento necessario per combattere la corruzione, la violazione dei diritti umani, e la devastazione ambientale che si crea lungo la catena di reperimento della materia prima», afferma l’ideatore e amministratore delegato della società Minespider.
La start up vende ai fornitori di minerali dei set di dati (veri e propri certificati di origine) collegati tra di loro in modo digitale. Diverse altre aziende stanno seguendo la stessa strada. Ma tutto questo è sufficiente?
«Ben vengano tutte le innovazioni aziendali in questo campo – commenta con noi John Mpaliza, ingegnere congolese, attivista del movimento cattolico per la messa al bando dei minerali insanguinati – L’importante però è che non ci si concentri solo sul business.
Ma si mantenga chiara la finalità sociale. Non sapremo mai chi viene messo nella lista nera dei produttori. Sarebbe davvero utile, invece, che un ente terzo super partes controllasse cosa avviene sia in Europa sia soprattutto nei Paesi in cui si estraggono i minerali».
Una due diligence europea può bastare?
La corsa aziendale allo sviluppo di soluzioni altamente tecnologiche è dovuta all’imminente entrata in vigore di un Regolamento europeo che responsabilizza le aziende impegnate nel business dei metalli a rischio.
È la normativa sui “conflict minerals” approvata da Parlamento e Consiglio europeo il 17 maggio 2017. A partire da gennaio 2021 obbligherà gli importatori europei di stagno, tungsteno, tantalio e oro (ma non di cobalto), ad effettuare controlli per garantire gli obblighi di responsabilità dei fornitori.
Perfino nei nostri smartphone è usata una quantità infinitesimale di oro, che funge da conduttore. I produttori di una certa dimensione dovranno dire come intendono monitorare le loro fonti per assicurare il rispetto delle norme.
In Italia la Focsiv (Federazione delle ong cattoliche) ha seguito fin dall’inizio l’iter legislativo e lo ritiene un buon compromesso. «Il Parlamento europeo ha fatto un ottimo lavoro», dicono in Focsiv.
Eppure il testo iniziale, prima che la palla passasse agli Stati membri era più ambizioso. Si è andato affievolendo. Adesso è opportuno che i firmatari «adottino misure adeguate per sanzionare il mancato rispetto degli obblighi», ammoniscono. E su questo versante sfumano molte certezze.
Purtroppo, a monte, un controllo davvero capillare sulle miniere è difficilissimo. «Vorrei avere la certezza che il telefono che compro non sia insanguinato – dice John Mpaliza -. Ma affinché ciò avvenga, dall’altra parte servono seri controlli. E sappiamo che in Africa a dettare legge sono le multinazionali».
I Paesi più ricchi di coltan sono anche quelli dove proliferano le piccole miniere illegali, gestite da contrabbandieri e schiavisti.
«Le aziende che si limitano ad adottare un approccio di due diligence e de-risking non possono essere considerate pienamente conformi ai Principi Guida delle Nazioni Unite su Business e Diritti Umani. Questo approccio è stato adottato dalle Global Alliance Battery (GBA), dove GSIF è
stata invitata come membro della società civile e osservatore», si legge nel rapporto Focsiv “I padroni della terra”, appena pubblicato.
Il coltan ha vissuto un suo boom all’inizio del Duemila, con lo sviluppo delle tecnologie informatiche; ma se prima i minerali venivano estratti soprattutto da Brasile, Canada e Australia, a partire dal 2008 il Congo è diventato un Paese leader. Poiché qui il costo del lavoro è pari a zero e il prezzo dei minerali precipita.
La maledizione del Nord Kivu
«Si parla di scandalo geologico congolese», afferma la ricercatrice Federica Vairo. Il Congo siede sull’oro: non c’è minerale che non vi si trovi in grande abbondanza. Ma non c’è cercatore d’oro e cobalto che viva una vita dignitosa. Riciclarli è relativamente semplice: i minerali escono dal Congo tramite il Rwanda e tutto ciò che passa di lì ottiene una certificazione valida per circolare. Il Nord Kivu è una sorta di frastagliata zona franca dell’illegalità mineraria. Pretendere che a partire dai numerosi “buchi” scavati con le mani nel terreno giallo (i nuovi “pozzi” di columbo e tantalite) si possano monitorare i metalli, è pura utopia.
«Serve assolutamente una tracciabilità. Ma il governo congolese la vuole davvero?», si chiede padre Eliseo Tacchella, missionario comboniano che ha vissuto per 20 anni nel Nord Kivu e ha visto con i propri occhi la disperazione dei cercatori di coltan e oro.
«Il problema in Congo è che i ribelli per comprare armi e pagare i loro combattenti fanno scavare miniere clandestine ovunque, usando il lavoro minorile», spiega ancora padre Tacchella. L’attuale presidente Félix Tshisekedi, il cui mandato è iniziato il 25 gennaio 2019, è subentrato a Joseph Kabila, il presidente più discusso della storia del Congo.
Con Tshisekedi le cose vanno forse meglio, ma smantellare un sistema corrotto, dove i controllori sono in combutta con i controllati, è un lavoro che richiede anni di riforme. E anche molto coraggio.
«Kabila si è dimesso ma non ha affatto abbandonato il Paese – ci spiega Mpaliza –. C’è un’assoluta continuità con il precedente regime. Chi traffica nei minerali ha accesso a capitali immensi».
Nel caso dei metalli “neri” ridotti in polvere per finire fusi nei nostri cellulari, la tracciabilità è più difficile rispetto a quella dei diamanti. Questi ultimi sono riconoscibili in base alla forma e al colore; la polvere di tungsteno invece risulta tutta uguale.
Cobalto e malformazioni alla nascita
Ma perché il cobalto è escluso da tutte le liste “nere” dei minerali insanguinati? Diversi attivisti ritengono che le multinazionali abbiano fatto pressione per escluderlo, sapendo che il cobalto sarebbe diventato ben presto molto importante come componente delle auto elettriche. Le batterie al litio infatti hanno bisogno di questo metallo prezioso per funzionare.
Ancora una volta il Congo è l’epicentro: il 60% del cobalto mondiale arriva da lì. Amnesty International nel 2016 ha pubblicato un rapporto che ricostruisce il percorso del minerale: attraverso la Congo Dongfang Mining, interamente controllata dal gigante minerario cinese Zheijang Huayou Cobalt Ltd, il cobalto lavorato viene venduto a tre aziende che producono batterie per smartphone e automobili: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. Queste ultime riforniscono i fornitori di prodotti high tech e auto.
Recenti studi hanno confermato che il cobalto è molto rischioso per la salute dei neonati: la rivista scientifica Lancet ha appena pubblicato un lavoro sui minatori della cosiddetta Copperbelt, regione mineraria tra Zambia e Repubblica Democratica del Congo.
Ha preso in esame i casi di 138 neonati nella Copperbelt e di 108 nati al di fuori della regione estrattiva: il rischio di malformazioni alla nascita è risultato molto più alto nel primo caso. «Le aziende sostengono che il cobalto non fa parte delle categorie di rischio, perché non vengono dalle zone di guerra – avverte Mpaliza – ma la realtà è che il cobalto è cruciale per le auto elettriche e non se ne vuole fare a meno».
Un altro missionario storico della RDC, il salesiano don Mario Perez, che vive nei pressi delle miniere di diamanti, ci descrive uno scenario infernale, di lavoro nero e sfruttamento di intere famiglie. «Nella nostra missione arrivano spesso bambini malnutriti e affamati che scappano dalle miniere di diamanti dove sono trattati come schiavi – racconta -. I bambini della nostra scuola hanno tutti un parente che lavora in miniera, anche fratellini più grandi.
E ci raccontano che muoiono spesso sepolti vivi in quelle gallerie pericolanti e insicure. I diamanti sfuggono ai controlli perché vengono esportati grezzi in Rwanda e Burundi, ripuliti, e da lì finiscono in India e in Cina».
«L’età media qui è 18 anni. Mbuji-Mayi è una città della provincia del Kasai Orientale, che un tempo dipendeva completamente dai diamanti – racconta il missionario –. C’era una società parastatale a partecipazione belga e tutti vivevano dei proventi delle sue gemme. Ma negli anni Ottanta, Mobutu ha messo fine al monopolio statale e si è creato un mercato libero. Tutti si sono buttati sul commercio dei diamanti e le miniere sono finite sotto il controllo dei gruppi armati.
L’unica miniera legale è andata in malora». La messa al bando di questi minerali che violano i diritti umani è una questione di civiltà e di impegno politico. Sta a tutti noi fare la nostra parte e pretendere che l’interesse economico non travalichi il diritto ad una vita dignitosa.
(Una precedente versione di questo articolo è stata pubblicata da Popoli e Missione di giugno 2020).