Molto a lungo le popolazioni locali sono state escluse dalla partecipazione ai progetti e alla missione

Laici in missione: avere o essere? Ed ‘essere’ con chi?

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Da quando mi occupo di questioni legate alla missione e più in particolare ai laici che partecipano
alle attività missionarie, ho sempre colto in molti di loro un certo senso di inadeguatezza.

In effetti, questo tipo di esperienza vuole unire l’aspirazione umana e “laica” ad un mondo più giusto e solidale da costruire con i famosi “progetti di sviluppo”, con l’adesione alla chiamata missionaria che sollecita anzitutto l’impegno nella evangelizzazione dei popoli, aprendosi alla universalità della Chiesa.

A tale proposito, nella seconda metà degli anni ’70 e poi anche nei decenni successivi del secolo scorso, circolava quasi come testo di riferimento per comprendere questa duplice dimensione riconducibile anche all’agire missionario, il libro del filosofo e psicanalista tedesco Erich Fromm, Avere o Essere? (ed. A. Mondadori, 1977).

Il titolo stesso di questo libro sollecitava una risposta radicale alle sfide poste dai processi di maturazione umana e sociale in atto in quel tempo in tutto il mondo.

Si era nel pieno emergere della modernità, con il suo impetuoso progresso tecnologico, economico e culturale avviato nei rapporti di interdipendenza tra i popoli e tra le nazioni fino a giungere alla controversa fase della globalizzazione.

La domanda che contrappone perentoriamente l’avere all’essere, non può, naturalmente, fermarsi ad un fuorviante giudizio morale sulle scelte individuali e sulla società.

Così come, troppo spesso, da cristiani impenitenti, siamo portati a leggere in termini eufemistici il passo del vangelo in cui Gesù non concede alcun margine di tolleranza nell’affermare che «Voi non potete servire Dio e Mammona» (Mt 6,24).

Tornando al senso di inadeguatezza a cui accennavo sopra, si può affermare che la coerenza della propria vita con il vangelo è l’ambizione più alta del laico missionario, eppure nemmeno le condizioni di povertà, spesso estrema, con cui ha a che fare quotidianamente, sono sufficienti a plasmare in lui uno stile di vita che soddisfi pienamente quella ambizione.

Anzi, si crea spesso una contrapposizione di stati d’animo.

Due tensioni distinte della mente e del cuore, tra loro opposte. La prima, orientata al fare, per dare vita a qualcosa di concreto, di pratico, di materialmente tangibile e “utile” per alleviare le tante povertà dalle quali ci si sente assediati.

L’altra, più riflessiva, introspettiva, spirituale e per certi versi, in alcune circostanze, fatalista e rinunciataria, ma rivolta alla ricerca dell’essere, distaccato dall’ambiguità del “fare per” e posta nella prospettiva del “fare con”.

In pratica, per tanti anni, in terra di missione, sulla spinta di uno “sviluppismo” terzomondista, ci si
è concentrati sulla realizzazione di opere che si ritenevano indispensabili per la crescita sociale ed economica delle popolazioni locali senza, però, cercare un loro diretto coinvolgimento nella ideazione e nella gestione di quei progetti.

Ai giorni nostri, invece, si è più propensi a lavorare a fianco della gente, ma questo “fare con” i destinatari delle attività sociali e di carità sostenute anche con il lavoro dei laici missionari, richiede forzatamente tempi più dilatati e difficilmente compatibili con l’efficientismo (anche pastorale) di cui siamo culturalmente imbevuti.

In questo caso, l’essere, come persona e come comunità, non può esprimersi semplicemente come
contrapposizione al fare, ma ne diventa, semmai, l’elemento giustificativo.

Non posso, cioè, rendermi davvero utile ai poveri, che come laico missionario intendo servire per la causa del vangelo, se non coltivo la conoscenza del mio essere, a partire dai miei limiti, per imparare a condividere anche le mie qualità umane e professionali.

Solo così posso essere in grado di testimoniare una fede che suscita eventi di liberazione dalle tante povertà e schiavitù contro le quali il solo fare potrebbe ben poco