C’è sempre un’immagine romantica che accompagna il nostro ricordo di chi parte per “la missione” verso luoghi lontani, sconosciuti e, perciò, ritenuti pericolosi, per rimanervi tempi sufficientemente prolungati.
Quell‘immagine raccoglie un misto di ammirazione e di timore per le tante sfide che il missionario dovrà affrontare e che solo con l’immaginazione riusciamo a collocare tra le avventure dei racconti di Emilio Salgari.
E se quel missionario in partenza è un laico? E se si tratta di un’intera famiglia missionaria? E se invece colui che parte per ben altra missione è un soldato?
Quanto sono importanti le parole!
Già dalla seconda metà del secolo scorso con gli interventi militari a guida della Nazioni Unite e/o della NATO in Congo, Libano, Iraq, ecc. siamo stati lentamente abituati a riconoscere come “missionari” coloro che in tuta mimetica e forniti di sofisticati mezzi di difesa (e di offesa) partecipano alle cosiddette “missioni di pace”, accompagnate da nobilissimi principi, come
la libertà, la democrazia e, appunto, la pace.
E come dovremmo altrimenti chiamarlo un soldato che partecipa ad una missione di pace?
Non è una semplice affermazione scherzosa, poiché mi è capitato più volte durante occasionali incontri con persone poco informate sulle “cose di chiesa” di dover specificare, a questo riguardo, che il mio interesse per la missione riguarda l’attività della Chiesa nel mondo e non qualche organismo associato ad attività belliche a fin di… pace.
Immagino che questa ambiguità interpretativa della missione, sia ancor più sentita, forse, tra le organizzazioni non governative presenti nelle aree di conflitto dove portano quei vitali soccorsi umanitari che spesso sono resi possibili proprio attraverso le “missioni di pace” militari.
In tutta questa movimentata, intrigante e composita attività “missionaria” possiamo, però, trovare un comune elemento che contrassegna allo stesso modo ciascun “missionario”: la sua estraneità.
L’entrare, cioè, a contatto con una realtà sociale, culturale, religiosa e politica, oltreché ambientale
e climatica, diversa dalla nostra, non solo sollecita un’istintiva e guardinga curiosità, ma ci mette davanti al fatto che non apparteniamo a quel “mondo”, spesso così diverso dal nostro.
Ci sentiamo stranieri, siamo in casa altrui. E non sempre possono bastare le buone intenzioni di “fare del bene” alle persone che si incontrano, a giustificare la nostra “intrusione” nelle loro vite.
In particolare, tornando all’ambito che qui più ci interessa, i “fedeli laici” che prestano il loro
servizio missionario conoscono bene questo senso di estraneità che pervade costantemente il loro
agire nella quotidianità in terra di missione.
Anche se quell’esperienza riescono a renderla sempre più ricca di relazioni di amicizia e di momenti celebrativi della fede condivisa con l’intera comunità locale di cui si sforzano di apprenderne la lingua, insieme ai tanti “segreti” più intimi della cultura,
della tradizione e della spiritualità.
E quando, al rientro dalla missione, si prova quello spaesamento che ti fa sentire quasi straniero a casa tua, dopo aver vissuto da straniero ( sebbene privilegiato) i mesi o gli anni da missionario, è proprio allora che incominciano a presentarsi con sempre maggiore insistenza le domande sul senso dell‘essere straniero, migrante in cerca di un mondo migliore.
(Questo articolo è stato pubblicato sul numero di giugno di NotiCum)