La Repubblica semipresidenziale di Taiwan è molto di più di un Paese conteso. I taiwanesi non sono un monolite, ma il risultato della relazione dinamica tra il loro passato e il loro presente.
Ventisei gruppi indigeni. Duemila anni di dinastie “cinesi” che si avvicendano sul suo territorio.
Coloni europei, portoghesi, spagnoli, olandesi tra il XVI e il XVII secolo.
L’impero giapponese che la occupa dal 1895 alla fine della Seconda guerra mondiale. Il definitivo insediamento dei nazionalisti cinesi di Chiang Kai-shek nel 1949, dopo aver perso la guerra civile contro i comunisti di Mao Tse-tung.
E, da ultimo, il passaggio dalla dittatura a una delle democrazie più floride d’Asia. Taiwan è uno Stato indipendente de facto con una capitale de facto (Taipei).
Tra il 1943 e il ‘45, durante le Conferenze del Cairo e di Postdam, fu restituita a Chiang Kai-shek, ancora leader della Cina. Ne scaturirono rivolte locali, represse con l’uccisione di migliaia di persone e l’imposizione della legge marziale.
Ma solo quando Chiang, a capo del Kuomintang, fu sconfitto da Mao, lui e altri due milioni di sostenitori si rifugiarono per sempre nell’unico territorio che potevano controllare.
Dopo questi fatti, arrivò il boom economico ma è soprattutto il processo liberale e di democratizzazione degli anni Ottanta e Novanta ad avere avuto un impatto decisivo sull’odierna identità taiwanese.
Lo spiega l’antropologa Melissa J. Brown nel libro “Is Taiwan Chinese?” in cui ripercorre nei secoli sia il mescolamento delle etnie nei matrimoni misti, sia i contrasti tra Han – gruppo originario della Cina continentale – e aborigeni.
Ma soprattutto dimostra come l’identità di un popolo sia modellata dall’esperienza sociale, ovvero dal contesto politico ed economico, e non solo da cultura e stirpe comune. Per questo oggi percepiamo una lontananza enorme tra Pechino e Taiwan.
Nell’ex Formosa sono garantite libertà di espressione, voto, religione. Si contano buddisti, taoisti, cristiani, confuciani e seguaci di credenze popolari.
L’imprenditoria – nota per la tecnologia informatica e i semiconduttori – è in continua evoluzione. Il 93% della popolazione ha accesso a internet.
Si dibatte di questioni ecologiche. Il sistema sanitario ha dato prova di una delle migliori gestioni della Sars-Cov-2.
È la distanza sociale ad aver plasmato la percezione pubblica, sebbene quella geografica che separa Taiwan dalla costa cinese sia al massimo di 180 chilometri.
Secondo Brown, i leader politici tendono a considerare le identità nazionali ed etniche come “fisse”, nascondendone la “fluidità”.
L’indipendenza di Taiwan sarebbe un problema per l’identità cinese.
Il Partito Unico Comunista teme un effetto domino sulle minoranze dei buddisti tibetani e dei musulmani uiguri. La disgregazione.
«In una democrazia inclusiva è importante riconoscere pienamente i diritti degli indigeni» dichiara Nikita Bulanin dell‘International Work Group for Indigenous Affairs – IWGIA, che aggiunge: «Negli ultimi decenni Taiwan ha compiuto notevoli progressi, considerando che non è più membro delle Nazioni Unite dal 1971.
Ha creato il Council of Indigenous People e approvato molte leggi. Allo stesso tempo la democrazia di Taiwan è giovane. Le prime elezioni libere risalgono a trent’anni fa» ricorda Jason Pan, autore per IWGIA ma anche attivista democratico e giornalista del Taipei Times.
Dieci gruppi indigeni, infatti, attendono di essere riconosciuti.
Su 23 milioni di abitanti, gli indigeni sono il 2.3%. Provengono da popoli austronesiani che hanno abitato un’area molto vasta, fra Madagascar, Malesia, Taiwan e Oceania.
La maggioranza di cinesi Han raggiunge il 95%, divisa in 70% di Hoklo (discendenti da cinesi emigrati a Taiwan prima dell’occupazione giapponese), 15% di Hakka con antenati nella Cina meridionale e altri gruppi minori.
L’attuale presidente Tsai Ing-wen del Partito Democratico Progressista (PDP), antagonista del Kuomintang, punta sul concetto di identità taiwanese e sul dialogo con gli indigeni per migliorare la democrazia.
La stessa Tsai è nata da padre Hakka e madre taiwanese con antenati aborigeni.
«A Taiwan ci sono gruppi con culture, lingue e orientamenti politici diversi, ma rispetto alle frizioni con Pechino si posizionano come i non indigeni» racconta Jason Pan.
I più giovani e gli adulti di mezza età sostengono il centro-sinistra del PDP, fondato nel 1986 dagli attivisti democratici che si sentono taiwanesi.
I più anziani, invece, votano per la destra del KMT e si percepiscono cinesi. Per loro il ritorno alla Cina non sarebbe così terribile se non ne intaccasse il benessere economico.
«In 60 anni di regime militare è stato imposto un lavaggio del cervello» rammenta Pan. Infine, esiste “il fattore Cina”: nell’ultima decade si è rafforzato il Partito Comunista Cinese con i suoi “delegati” e i “collusi” nel KMT.
Un paradosso: estremisti di sinistra e di destra alleati contro democrazia e indipendenza.