Rimarrà molto a lungo l’eco delle parole finali di Papa Francesco pronunciate durante l’ultimo viaggio apostolico.
«Giù le mani dalla Repubblica Democratica del Congo, giù le mani dall’Africa!», ha detto Bergoglio.
Ripetendo che il continente «non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare. L’Africa sia protagonista del suo destino!».
Eppure le mani sul Congo tutti le hanno sempre messe da centinaia di anni e verosimilmente continueranno a farlo ancora a lungo.
Di coltan e cobalto molto si è detto e raccontato in questi ultimi mesi. Meno sappiamo invece dell’oro congolese.
E del recente accordo che Kinshasa ha stipulato con Dubai per arginare le esportazioni illegali d’oro attraverso il Ruanda. Ma andiamo con ordine.
Il Ruanda non è un grande produttore d’oro, eppure lo esporta in tutto il mondo come se fosse la sua prima risorsa naturale.
Le miniere d’oro ruandesi e quelle ugandesi sono circoscritte e poco redditizie. I due Paesi rivendono però all’estero tonnellate di minerali (insanguinati) che finiscono direttamente nelle gioiellerie di Dubai.
Come è possibile questa triangolazione ‘eccellente’?
In effetti la gallina dalle uova d’oro c’è: sono le regioni dell’Est del Congo ‘balcanizzato’ e assediato dalle milizie armate, dall’Ituri al Nord Kivu.
Ben il 95% delle 27,7 tonnellate d’oro che l’Uganda ha esportato nel 2019 – soprattutto in Arabia Saudita e ad Hong Kong – è stato ‘trafugato’ dalla Repubblica Democratica del Congo.
Con i proventi di queste vendite illegali le milizie locali comprano armi e proseguono la mattanza del popolo congolese del Nord Kivu.
Nel 2018 la produzione domestica d’oro ugandese sfiorava appena le tre tonnellate, ma nel 2019 era arrivata ad oltre 25 tonnellate.
Com’è possibile?
Le miniere ruandesi producono circa 2000 tonnellate d’oro all’anno, ma il Paese nel 2018 aveva esportato negli Emirati Arabi Uniti una quantità d’oro superiore, stando ai dati ufficiali di IMPACT (think tank canadese che monitora la provenienza delle risorse naturali africane).
Il Ruanda ha fondato l’anno scorso la sua prima raffineria d’oro con la capacità di lavorare l’oro di tutto il continente.
In tal modo il minerale che arriva sulla piazza di Dubai viene rivenduto a costi molti bassi perché gli Emirati non pagano alcuna tassa ai trafficanti africani e i prezzi scendono.
Lo spiega molto bene anche The Africa Report.
Secondo i dati forniti dalla Banca Centrale dell’Uganda le esportazioni del minerale prezioso sono ‘esplose’ in Uganda nel primo decennio del Duemila. Evidentemente l’oro non lo producono, lo acquistano altrove.
Per arginare questa emorragia d’oro dal suo Paese ai confinanti, il Presidente congolese uscente, Tshisekedi ha firmato a metà gennaio scorso, un accordo con gli Emirati Arabi Uniti per la creazione di una joint venture, la Primera Gold, con l’obiettivo di esportare nel Paese una tonnellata d’oro certificato al mese. Clicca qui per leggere.
Circa 30mila miniere artigianali forniranno oro a questa nuova company, che in cambio promette di garantire «un salario regolare, accesso a cure mediche ed istruzione per le famiglie dei minatori».
Quanto tutto questo sarà poi effettivamente portato avanti è ancora tutto da verificare. Ma potrebbe essere un buon inizio.
D’altra parte la triangolazione dei blood minerals (chiamati insanguinati perché estratti in zone di guerra e guerriglia) soprattutto coltan e oro, che dall’Est del Congo finiscono nei paesi confinanti (e da lì in Asia, Medio Oriente e in Europa) non è una novità.
Sta di fatto che oggi, a distanza di 20 anni dalle prime denunce, il commercio illecito continua a finanziare una guerra non apertamente dichiarata, circoscritta all’Africa, e molto devastante. .
Un report dettagliato del 2020 di The Sentry, gruppo di esperti ed investigatori sul riciclo di denaro sporco, parlava già due anni fa del commercio d’oro tra l’Africa e gli Emirati arabi.
Questo traffico è persino aumentato sotto gli occhi attoniti degli osservatori internazionali e di quanti monitorano il fenomeno, andando ad alimentare la lotta per le ricchezze e la terra tra le 114 milizie armate che si contendono il Congo di confine.
Esattamente 20 anni fa le Nazioni Unite pubblicavano il loro primo report sul conflitto dei minerali che aveva devastato la Repubblica democratica del Congo, attribuendo ad Uganda, Ruanda e Burundi (occupanti di porzioni del Paese fin dal 1996) la responsabilità della vendita illegale di minerali.
Tutt’oggi non esiste un embargo internazionale sul commercio d’oro da Uganda e Ruanda al resto del mondo. Il Ruanda è considerato anzi un Paese sicuro e war free.
Né tanto meno v’è certezza sulle estrazioni del coltan dal Congo, nonostante i recenti accordi internazionali che dovrebbero consentire il controllo dell’intera filiera.
A gennaio 2021 è entrato in vigore un regolamento europeo sui “minerali insanguinati”, primo fra tutti il coltan.
L’obbligo per le aziende sarà quello di garantire la provenienza pulita dei metalli usati nei nostri cellulari. Ma con il sistema delle triangolazioni appena descritto, il controllo della filiera è pura utopia.
Il dettaglio col quale di recente le Nazioni Unite – tramite il gruppo di Esperti sulla RDC, coordinati da Virginie Monchy – hanno descritto l’intricato affaire dei minerali congolesi è sconvolgente. E più agghiacciante del solito. Clicca qui per leggere il report.
Nelle 358 pagine appena pubblicate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu c’è tutto quello che si dovrebbe sapere sul traffico di minerali; la loro estrazione illegale e la guerra.
Si racconta ad esempio di come oro e coltan vengano trasportati in canoa sul lago Kivu, dove i carichi della merce proibita sono nascosti in “compartimenti segreti” per aggirare i controlli, e arrivare indisturbati in Ruanda.
I ricercatori citano Rubaya, una piccola area dell’Est del Congo, che fornisce circa il 15% delle scorte mondiali di coltan.
Delle miniere illegali e delle milizie che sfruttano manodopera per ricavarne merce redditizia si specifica ogni dettaglio. Una prassi per lo più nota ma difficilmente testimoniata in modo così capillare.
«I risultati di questa terza sezione (“Ituri, Cooperativa per lo Sviluppo del Congo, CODECO”) sono basati su interviste fatte a 170 persone provenienti da diverse comunità, inclusi testimoni diretti, vittime, autorità locali e delle miniere; Ong e società civile», si legge nel report.
Un intero materiale processuale che ancora non vede però alcun imputato alla sbarra di una eventuale Corte internazionale.
«L’oro dei Yakutumba è commercializzato a livello internazionale – si legge nel report Onu – inclusi Paesi come l’Arabia Saudita, Hong Kong e Cina, attraverso rivenditori d’oro non registrati del Sud Kivu. Nel dicembre del 2020 Avanish Sarl, una ditta che esporta oro con sede a Bukavu, ha esportato 5mila 103 chili d’oro da Mitondo, Makungu e Kachanga, via Ruanda, direttamente nelle gioiellerie di Al-Hallaq LLC a Dubai».
Del Sud Kivu si parla come della terra occupata dai Mai-Mai Yakutumba, guidati da William Amuri Yakutumba, uno dei gruppi armati più attivi in tutta la regione tra Sud Kivu, Maniema e Tanganyika. I Mai-Mai sono una delle milizie più pericolose e feroci. Eppure si occupano di metalli preziosi e miniere come fossero dei manager.
«I Mai- Mai Yakutumba – scrivono le Nazioni Unite – hanno continuato a generare entrate finanziare tramite i membri della comunità dei Bembe sia dentro che fuori il Congo, sfruttando sequoie, traffici d’oro e tasse sulla pesca».
I dettagli della triangolazione sono raccontati in un approfondimento anche dell’Eurispes: «Una volta estratto, l’oro viene venduto dai minatori a un commerciante, o négociants, il quale a sua volta lo vende a un esportatore, noto come comptoir.
È in questa fase che la quasi totalità dell’oro estratto in Congo sparisce per venire contrabbandato al di fuori del paese.
Al di là della falsificazione dei registri e dei certificati d’esportazione da parte dei comptoir, il contrabbando avviene sostanzialmente in due modi».
Nel primo, l’oro viene portato oltre confine (generalmente in Uganda e Ruanda) per essere venduto ad aziende locali che si occupano di raffinarlo per poi esportarlo come oro ugandese o ruandese. Nel secondo addirittura si usano voli charter clandestini diretti a Dubai.
È oramai opinione diffusa tra gli analisti che la guerra tra milizie in Congo non è un conflitto etnico, ma un conflitto per le risorse.
Un bel reportage dell’Inter Press Service (“don’t call it Ethnic, Ituri conflict is a mystery”), spiega anche perché la definizione di conflitto etnico nell’Est del Congo è fuorviante.
Le milizie armate non hanno un progetto “politico” alle spalle, ne hanno piuttosto uno predatorio.
Paragonabili ad una mafia che arruola ‘banditi’, più che ad un gruppo armato con un preciso obiettivo a lungo termine, le milizie hanno iniziato «ad uccidere senza un’apparente ragione».
«I gruppi armati spesso vivono all’interno delle comunità stesse», si legge.
Le sfruttano, le umiliano, le minacciano, le tiranneggiano ma ne fanno parte, in un certo senso. Vivono con loro nei villaggi, dominando la gente con le armi.
«Anche nel villaggio di Sambuso nell’Ituri, le persone sono state ammazzate e non si sa perché. – si legge nel reportage Inter Press – Vivevamo molto bene assieme, ma hanno iniziato ad attaccarci senza che sapessimo quale fosse il problema. Ci uccidono senza una ragione».
La ragione ancora una volta sta nelle risorse senza fondo, nella ricchezza di un sottosuolo, quello congolese, che consente ancora a distanza di venti anni ai Paesi limitrofi voraci di terre ghiotte, di accaparrarsi pezzo dopo pezzo quelle migliori.
La reazione di chi ci viveva, e ci vive ancora, è ridotta al minimo perché anni di guerriglia, predazione e lotta fra bande armate hanno sfiancato e decimato gran parte del popolo resistente.