La voce della poetessa e attivista Taciana Niadbaj, costretta a fuggire dal suo Paese, racconta le condizioni di vita nella Bielorussia di Lukashenko, in questa lunga intervista nel numero di gennaio di Popoli e Missione.
C’è voluto del tempo per intervistare la poetessa e attivista Taciana Niadbaj, costretta a lasciare la sua Bielorussia e a trovare rifugio in Polonia.
E in questa attesa, mentre Niadbaj era impegnata in vari spostamenti come presidente di PEN Belarus (PEN acronimo di Poets, Essaysts, Novelists, cioè poeti, saggisti e romanzieri) e nella scrittura di un libro sul Nobel per la pace 2022, Ales Bialiatski, è stato chiaro quanto tempo abbiamo perso noi.
Noi come Occidente, noi come vicini europei, che abbiamo trascurato un popolo oppresso dalla dittatura del presidente Aleksandr Lukashenko e stiamo scoprendo solo adesso – dopo l’invasione militare russa dell’Ucraina dello scorso febbraio – i suoi coraggiosi oppositori politici.
Molte le donne.
Molti in prigione, come lo stesso Nobel sessantenne Bialiatski fondatore del Viasna Human Rights Centre e la quarantenne Maria Kolesnikova, che mentre scriviamo è stata spostata dalla sua cella alla terapia intensiva per motivi ignoti.
Altri nascosti o rifugiati all’estero, seppure temporaneamente, tra i quali Svetlana Tikhanovskaya, anche lei classe 1982 come l’amica Kolesnikova, che si è candidata alle ultime elezioni contro Lukashenko.
Taciana Niadbaj ha gli occhi chiari, l’espressione dolce e al tempo stesso fiera di una giovane donna, che si sente – tratto comune a tutti i dissidenti bielorussi – espropriata del suo Paese in senso ampio e profondo.
(L’intervista verrà pubblicata sul numero di gennaio di Popoli e Missione).