La Giornata Missionaria Mondiale (GMM) torna ad interrogarci sull’impegno dei battezzati per l’ad gentes nel mondo.
I testimoni che ospitiamo in questo dossier sono arrivati alle frontiere del mondo per annunciare il Vangelo e hanno incontrato uomini a cui hanno unito il loro destino.
A commentarlo per noi monsignor Giuseppe Satriano, arcivescovo di Bari-Bitonto e presidente della Fondazione Missio.
E’ l’autenticità della vita che rende testimoni gli uomini e le donne che seguono le vie del Vangelo. E’ monsignor Giuseppe Satriano ad approfondire i significati (e le provocazioni) della missione, una «trasformazione radicale, culturale, che coinvolge e – perché no? – stravolge mente e cuore».
Lo slogan delle Giornata Missionaria Mondiale “Vite che parlano” è un richiamo al messaggio di papa Francesco che esorta: “Di me sarete testimoni”.
Ma chi sono oggi i testimoni del Vangelo? A chi guardare per ispirare la nostra conversione missionaria?
Lo abbiamo chiesto a monsignor Giuseppe Satriano, arcivescovo di Bari-Bitonto, presidente della Commissione episcopale per l’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione tra le Chiese e presidente della Fondazione Missio che in queste pagine offre ai lettori di Popoli e Missione molteplici riflessioni sulla Giornata missionaria Mondiale (GMM).
«Essere testimoni ci rimanda al pensiero del beato Rosario Livatino che scriveva nel suo diario: “Alla fine dell’esistenza, non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”.
Egli poneva in risalto i caratteri di una testimonianza capace di penetrare la realtà non a parole ma con la vita.
Un testimone, infatti, è innanzitutto chi, scoprendosi amato, narra ciò che ha visto, toccato e udito, con l’autenticità della vita, nell’ordinario dell’esistenza.
Anche oggi abbiamo bisogno di vite che parlino con le proprie storie; vite autentiche profumate di profezia e di verità; vite che sappiano recuperare il sogno di Dio sul creato; vite che nell’essenziale del quotidiano si ritrovino a cantare l’amore con cui Gesù ci ha risollevato dalla solitudine e dalla disperazione del peccato».
Più che con le parole, la missione ci insegna che il Vangelo si comunica, attraverso gesti concreti di spiritualità incarnata, Cosa ci direbbero oggi i discepoli di Gesù?
«Per le strade del mondo sono tanti i discepoli di Cristo che raccontano con la vita la bellezza della Sua presenza che cammina accanto all’uomo ferito, di ogni latitudine.
Sono coloro che con cuore verginale hanno fatto della propria vita un dono ai fratelli: non coltivando la logica del possesso come regola rassicurante del vivere, adottano quel “breviario” di sobrietà e fiducia che non prevede garanzie quali bisaccia o bastone, denaro o sandali, ma solo la strada degli uomini dove vivere l’esperienza generativa di un amore che si dona, quella del Cristo.
Essere discepoli del Cristo, oggi, è imparare a uscire dagli accampamenti, dalle confort zone che ci siamo costruiti, dalle tende intessute di pregiudizi che separano gli uomini e le culture.
Sono tanti gli uomini e le donne che si mettono in cammino su sentieri impervi, rifiutando sistemazioni accomodanti e accettando la precarietà, pur di accendere una luce che doni speranza.
Essi narrano con la propria esistenza quella passione per l’uomo che abita il cuore di Cristo che, nelle trincee della storia, con tenerezza desidera aprire squarci di pace, suscitare bagliori di giustizia e profumare di fraternità la vita di tutti».
Quali sono oggi le nuove frontiere pastorali, le sfide della missione ad gentes?
«Non si tratta di frontiere lontane. Sono sotto casa nostra, in quegli spazi di vita nei quali l’indifferenza ha relegato l’esistenza di coloro che hanno perso tutto; attraversano le periferie delle città e sono abitate da fratelli e sorelle che nella rassegnazione hanno edificato il loro futuro;
le troviamo nei luoghi della movida, dove il non senso dello sballo e della trasgressione sembrano restituire gioie effimere per tentare di colmare i vuoti della vita; le troviamo lì dove l’ingiustizia e la violenza segnano la vita di molti, di tutti coloro che sono ancora inascoltati.
Queste frontiere sono ovunque ed evocano l’urgenza di un annuncio che si faccia accompagnamento e liberazione da ogni forma di schiavitù, testimonianza che parli il linguaggio della riconciliazione e della misericordia.
Nella sua etimologia l’ad gentes ci ricorda quell’umanità, vicina e lontana, che non ha conosciuto e incontrato Cristo, e attende di essere raggiunta dall’annuncio di salvezza.
Scevri da ogni forma di romanticismo missionario siamo chiamati ad assumere la responsabilità di accogliere l’urgenza di vivere il Vangelo ovunque il Signore ci chiami perché la vita ritrovi, in Cristo Risorto, linfa e speranza».
Vangelo e dialogo con altre culture e religioni: anche in tempi di guerra l’autorevolezza della Chiesa e di papa Francesco, sono una speranza per tutta l’umanità. Come dialogo e missione possono lavorare per la pace?
«Non c’è missione senza la capacità di entrare in dialogo con culture, linguaggi, stili di vita che spesso appaiono lontani dal Vangelo.
In secoli di storia la Chiesa, fatta eccezione per i fenomeni di colonialismo religioso, ha saputo dialogare e aprirsi a contesti profondamente diversi da sé.
La testimonianza del Santo Padre si pone su questa scia profumata di rispetto e amore per ogni realtà umana.
La sfida missionaria oggi ci chiama ad abitare le storie, i desideri, le ferite, i sogni di ogni credo religioso, sapendo cogliere come, tra violenza e indifferenza, c’è sempre l’opzione di una “convivialità” che non fagocita le differenze, assimilandole, ma vive la tensione per l’unità a partire da ciò che accomuna e conduce ad un’umanità costruttrice di pace.
Nella ricerca di Dio è sempre possibile costruire un cammino che sappia farsi carico delle diversità nella tessitura di relazioni fraterne e di percorsi di pace, non dimenticando lo stile con cui Gesù stesso ha abitato il suo tempo».
Molti missionari si battono per i diritti delle minoranze etniche e per il rispetto dell’ambiente. Missione e cura della casa comune: testimoni del Vangelo anche attraverso il rispetto dell’ecologia integrale?
«“Evangelizzare è rendere presente nel mondo il Regno di Dio”, ci ricorda papa Francesco (Evangelii Gaudium 176). Nella misura in cui il Signore regna tra di noi, la vita sociale sarà spazio di fraternità, giustizia, pace, dignità per tutti e vita piena per l’intera creazione. La postura con cui il testimone di Cristo si pone nei confronti della realtà è sempre a tutto campo e relazionale, e non può ospitare incoerenze. Riflettere l’amore salvifico di Cristo, Luce del mondo (Gv. 8,12), è il compito affidato alla Chiesa in questo tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di essere raggiunto da una luce che illumini zone oscure e dolorose. Oggi più che mai, i missionari sono chiamati ad incarnare la profezia di una vita tutta protesa a riscattare il sogno di Dio sul creato e a farsene collaboratori. Formare comunità cristiane è anche accompagnare i processi di speranza, mediante un impegno partecipativo, che già molte realtà autoctone vivono nella ricerca di diritti che tutelino la terra, l’accesso all’acqua e a una vita dignitosa. La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli, in tal senso ogni cristiano è chiamato a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore attraverso opzioni personali e sociali che testimonino coraggiosamente questa realtà. Se tutto è in relazione, allora non si tratta solo di una lotta di pochi e per pochi, ma di una vocazione alla custodia per tutti».
Quest’anno la GMM ci coglie in pieno cammino sinodale: come sta cambiando la Chiesa e le Chiese con peculiarità diverse in ogni Paese del mondo? E’ la missione ad indicare la via a quella “Chiesa in uscita” di cui tanto parla papa Francesco?
«Stiamo vivendo una nuova opportunità di grazia. L’aver posto la Chiesa tutta dinanzi alla sfida sinodale ha rilanciato il tema della comunione e della corresponsabilità come orizzonti su cui crescere per operare quel cambio di paradigma di cui la Chiesa necessita, e che l’Evangelii Gaudium ha evidenziato. Si tratta di cambiare approccio alla realtà, di mutare il nostro sguardo globale, a partire dalle nostre situazioni particolari. Certamente avviare una trasformazione missionaria della Chiesa e delle nostre Chiese, richiede un re – innamoramento del cuore che deve potersi ricentrare su “la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Cristo morto e risorto” (EG n.36). Solo una ritrovata appartenenza e fedeltà a Lui e al suo mandato può condurci a quella creatività che nasce dalla preghiera, dalla gratitudine per quanto ricevuto, dal discernimento e dall’audacia del mettersi in gioco. Ricordiamo che il papa invita ad una trasformazione missionaria paradigmatica e non funzionale. In altre parole: una trasformazione in radice, culturale, che coinvolge e – perché no? – stravolge mente e cuore. Accorgersi di ciò che di nuovo germoglia, fare nuove le cose a partire da una memoria grata è l’imperativo a cui guardare per camminare insieme.
La missione è scambio. E’ dare e ricevere ma in questo flusso ci sono tanti elementi nuovi che stanno emergendo all’interno di fenomeni come le migrazioni. Come cambiano i linguaggi della missione ad gentes. In che modo?
«Nella Laudato Sii (n.139) il papa afferma che non ci sono crisi separate, una di tipo ambientale e l’altra sociale. Anche il tema delle migrazioni è interconnesso al tema di un’ecologia integrale e a quello di un’economia che uccide. C’è una spirale di autodistruzione dalla quale è possibile uscire solo attraverso un dialogo inclusivo, non rinunciando a denunciare, con una testimonianza di vita, i percorsi d’ingiustizia che si attuano nella vita di molti fratelli. Ritengo che il linguaggio con cui vivere la missione ad gentes, in questo contesto socio-culturale, si debba nutrire sempre di una grammatica fatta di vicinanza reale, di accompagnamento e cura. Abbiamo bisogno di un dialogo sincero, sempre più aperto e inclusivo, che ci porti a prendere coscienza di alcuni limiti intrinseci al nostro modo di pensare e vivere, e ad imparare prospettive più olistiche, per costruire assieme un mondo più sostenibile e fraterno».