«Quando arrivai in Zambia per la seconda volta, nel 1993, si era in pieno boom dell’Aids: gli ammalati erano tanti e discriminati, nessuno voleva assisterli, per curarli le famiglie li portavano dallo stregone».
Molte leggende aleggiavano attorno a quella peste misteriosa e senza scampo, alimentata dal pregiudizio.
Le bambine erano particolarmente a rischio: «si pensava addirittura che per gli uomini unirsi alle vergini giovanissime fosse una via di guarigione».
La Chiesa cattolica a Lusaka sarà l’unica ad assistere a domicilio gli ammalati di Aids e Hiv: «come missionaria comboniana il mio compito era quello di occuparmi delle donne e del loro riscatto».
A raccontarcelo è una donna dal sorriso luminoso e la voce sottile: suor Paola Glira, classe 1959, in missione zambiana da oltre trent’anni.
Il Paese è fertile di comboniani fin dagli anni Settanta: New Kanyama, parrocchia urbana di Lusaka accoglie nel 1975 le prime suore.
Due anni dopo una nuova comunità nasce a Itezhi-Tehi, diocesi di Monze. Alla fine del 1977 arriva anche padre Kizito Sesana che si stabilisce a Chipata provincia Est, ai confini con Malawi e Mozambico.
La guerra civile mozambicana porterà centinaia di migliaia di rifugiati ad attraversare il confine. L’impegno di suor Paola e degli altri in quegli anni cupi è grande e senza sosta: «il cristianesimo ha donato la libertà dalla paura», dice lei oggi, parlando da uno Zambia parzialmente risanato.
«Ha liberato lo spirito dall’idea della colpa», ed è questo il segno più grande del Vangelo.
L’Hiv è ancora presente ma i numeri calano: le infezioni sono passate da 60mila del 2010 alle 51mila del 2019.
La missione delle comboniane continua a Makeni Villa, periferia della capitale, dove suor Paola assieme alle consorelle si batte per la promozione delle donne.
La vita negli slum e nei villaggi è sempre dura, sebbene meno di un tempo. «Le donne quando sono con noi parlano molto, si confidano», ci dice la missionaria.
Raccontano delle loro fatiche quotidiane: «i corsi di alfabetizzazione e cucina sono in effetti soprattutto un’occasione per entrare in stretta relazione».
Dall’atelier di taglio e cucito alla casa il passo è breve: «noi suore diventiamo delle amiche, ci invitano a casa, ci mostrano quello che finalmente riescono a comprare grazie ai soldi guadagnati facendo le sarte».
Essere donna negli slum è spesso un doppio stigma: alla povertà si aggiunge la relazione difficile con un patriarcato molto possessivo.
«Quando i mariti si rendono conto che andare a scuola di maglieria o di cucina non è un rischio per le mogli, sono felici ma per arrivare a questa consapevolezza c’è tanta strada da fare.
E poi spesso le donne restano da sole ad occuparsi dei figli – spiega suor Paola – Ci vuole coraggio e loro ne hanno.
Alcune si spingono fino al Sudafrica in bus per comprare i tessuti o uno stock di coperte che poi rivendono al mercato di Lusaka; ogni viaggio è un’impresa».
La resilienza femminile è potente e le donne sanno reinventare ogni volta la loro vita: la vicinanza delle missionarie serve a rinsaldare l’autostima e ad avere fede nella certezza del proprio riscatto.