Istanbul: il destino di Santa Sofia, le molte identità di un luogo di culto

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«Santa Sofia non è l’emblema della fragilità del cristianesimo e dell’aggressività dell’islam, come qualcuno scrive, ma della pericolosa strumentalizzazione politica della religione».

Una strumentalizzazione non certo recente (per secoli, fin dalla costruzione della prima basilica nel 360 D.C., la chiesa fu al centro di contese e diatribe), culminata con la decisione dei giorni scorsi di riconvertirla in moschea. Atto finale «di un autoritarismo erdoganiano» oramai consolidato.

Claudio Monge, padre domenicano, da 15 anni ad Istanbul e fautore del dialogo interreligioso,  commenta così la firma da parte di Recep Tayyip Erdogan del decreto di riconversione di Hagia Sophia in moschea. Ciò che è patrimonio dell’umanità per l’Unesco diventerà materia gestita dal Direttorato degli Affari religiosi turco.

Sta proprio qui, secondo diversi commentatori, il dolo di un atto che sottrae un patrimonio universale alla sua universalità, per relegarlo in un ambito ristretto.

Padre Monge spiega che questa scelta su Santa Sofia è «un’interruzione storica indissociabile di credenze, culture e religioni, che non sono stati solo in conflitto permanente, ma anche, talvolta, in dialogo. Mettere tutto in discussione è sicuramente un passo indietro».

Papa Francesco durante l’Angelus di domenica scorsa si è espresso in maniera sintetica e significativa: «Penso a Santa Sofia, e sono molto addolorato». Un dolore che evidentemente deriva anche dal constatare la reiterazione di divisioni e contrasti interni, legati al luogo di culto tiranneggiato.

La Storia ci racconta in effetti vicende travagliate attorno a Santa Sofia, fin dai tempi delle Crociate: durante la Quarta Crociata la chiesa fu saccheggiata e profanata dai cristiani latini. Molte reliquie furono sottratte e così accadde nei secoli a venire. Fin quando divenne moschea nel 1453, per essere poi riconvertita in museo da Ataturk nel 1935. Status che ha mantenuto fino ad oggi.

La decisione odierna, che risale al 10 luglio scorso, presa dal presidente Erdogan non è un fatto isolato; si colloca piuttosto nel solco di una serie di provvedimenti governativi liberticidi e molto autoritari. La religione islamica in questo contesto antidemocratico che va avanti da anni, «è usata in maniera strumentale e anacronistica», dicono gli analisti.

 In particolare la Turchia negli ultimi quattro anni (da quel 15 luglio 2016, giorno del fallito golpe contro Erdogan), ha subito una stretta securitaria senza precedenti che ha depotenziato la democrazia e ha creato un ritorno al passato splendore ‘ottomano’, rimettendo al centro il culto del sultano.

«La Turchia è un Paese sempre meno libero, oggi impegnato militarmente nella guerra di Libia e di Siria, oltre che contro i curdi», denunciano i dissidenti.  

Padre Claudio Monge ripete che il problema non è rappresentato dall’Islam in sè, piuttosto dal nazionalismo. «La vera emergenza turca – ci ripete – non è islamica, è nazionalista».

«La pandemia in questi mesi è stata una buona occasione per stringere ancora di più i ranghi di un certo discorso nazionalistico – dice Monge -. Anche perché la Turchia alla fine degli anni Novanta aveva dimostrato molta impreparazione nelle emergenze e adesso ha recuperato consenso. Per il Covid è suonata la musica dell’amor patrio».

Per approfondire gli sviluppi politici nella Turchia di Erdogan si rimanda all’ultimo numero di Popoli e Missione, e all’articolo “L’alibi del sultano”.