Con la revoca dell’export di armi verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi, decretata dal governo italiano a fine gennaio scorso, è stato fatto un passo concreto sul cammino della pace. Certamente il percorso da compiere è ancora lungo, ma c’è chi si impegna in tale direzione. Tra questi, Pax Christi Italia. Ne abbiamo parlato con il coordinatore nazionale, don Renato Sacco.
Non è mai inattuale parlare di pace, né ridondante o superfluo. Ne è convinto don Renato Sacco, sacerdote della diocesi di Novara e coordinatore nazionale di Pax Christi Italia.
Con il suo vissuto pluridecennale di impegno concreto a favore di campagne nazionali e internazionali contro guerre, armi, ingiustizie, per ogni mese ricorda anniversari e ricorrenze di fatti che hanno segnato la storia della pace, nel bene e nel male.
E pensando al mese in corso, subito richiama l’attenzione al 6 aprile 1992, giorno in cui iniziò l’assedio della città di Sarajevo, capitale di Bosnia ed Erzegovina, da parte delle forze serbe: di fronte a quell’attacco che fece precipitare la situazione nei Balcani, il movimento pacifista e non violento rispose con un’iniziativa coraggiosa, la Marcia della pace a Sarajevo, alla quale prese parte anche lui e dove vide con i suoi occhi le «armi made in Italy».
La stessa data, ma di due anni più tardi, richiama anche un altro drammatico fatto:
«Era il 6 aprile 1994 – fa notare il sacerdote – e l’attentato all’aereo presidenziale ruandese, con a bordo anche il presidente del Burundi, segnò l’inizio di uno degli eventi più sanguinosi del secolo scorso: il genocidio di hutu e tutsi». Un’altra ricorrenza che cade in questo mese e che non può essere dimenticata.
Gioca spesso con le date, don Sacco, nei suoi numerosi articoli sulla stampa cattolica e non, nei diversi media che lo intervistano e nei suoi interventi in iniziative pacifiste: le sue parole non sono mai retoriche, né tantomeno teoriche.
Il sacerdote, infatti, è impegnato quotidianamente per veder concretizzata la pace, pur sapendo che il cammino che conduce alla sua attuazione è molto arduo e i passi da compiere sono infiniti.
Pace non è solo l’assenza di guerre o conflitti (e comunque– se così fosse – pure questo traguardo sarebbe lontano), ma anche il rispetto dei diritti umani, oltre alla cancellazione di ogni commercio e produzione di armamenti.
L’intervista con don Sacco parte proprio da qui, da quell’atto – definito di «portata storica» – che è stata la revoca dell’export di missili e bombe verso Arabia Saudita ed Emirati Arabi, decretato dal governo italiano a fine gennaio scorso, che di fatto ha annullato la spedizione di 12.700 ordigni.
Da quando è in vigore la legge 185/90 sull’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento, questa è la prima volta in cui un governo italiano interviene sulla materia. Ma finora, vista la legislazione, com’è stato possibile che il nostro Paese esportasse bombe?
«Per capire come stanno le cose occorre innanzitutto ricordare che gli armamenti che dall’Italia arrivavano a queste due nazioni arabe venivano usati in Yemen, dove le stesse Nazioni Unite – non un pacifista qualsiasi – riconoscono che è in corso la più grande tragedia umanitaria mondiale del secondo dopoguerra, per gli stenti che la popolazione sta vivendo in conseguenza alla guerra.
Fatta questa premessa, c’è da dire che l’industria produttrice delle bombe protagoniste della vicenda, la RWM Italia, in realtà è un’azienda tedesca che ha la sua produzione in una delle zone più povere della Sardegna, il Sulcis-Iglesiente. Ora, la legge 185/90 dice che non possono essere vendute armi a Paesi che violano i diritti umani o che sono in guerra, ma l’Arabia Saudita non era ritenuta in guerra: in pratica, non figurava nell’elenco… Inoltre, il fatto che dalla RWM Italia partissero le armi da usare in Yemen non era poi così ovvio: ci sono volute delle prove che lo dimostrassero».
E come sono state trovate?
«Se ricordo bene, tutto è cominciato qualche anno fa, quando un parlamentare a bordo di un aereo in partenza da Cagliari ha fotografato dall’oblò alcuni bancali di bombe. Da quel momento molte realtà impegnate per la pace si sono mosse e il quotidiano Avvenire se ne è occupato seriamente.
La svolta è avvenuta con la diffusione della foto di una bomba esplosa in Yemen, il cui fondo – ancora leggibile – riportava la sigla A4447, a significare la provenienza italiana. Solo di fronte a questa e altre prove, si è avuta l’evidenza della flagrante violazione della legge 185/90, cioè del fatto che bombe esportate dall’Italia venissero usate in guerra».
D. Pax Christi fa parte della Rete Italiana Pace e Disarmo, un cartello di numerose organizzazioni pacifiste. Cosa rispondete all’obiezione di chi dice che, in un momento di profonda crisi economica come quello che stiamo vivendo, il settore della produzione di armi è uno dei pochi che assicura occupazione?
R. «E’ vero che l’Italia ha sempre fatto grandi affari con la produzione e il commercio di armi. Ma la bilancia dei pagamenti di una grande nazione, come la nostra, non si regge su questo settore che ricopre meno dell’1% di tutte le esportazioni italiane.
Comunque, numeri a parte, occorre porsi la domanda che gli stessi missionari impegnati in zone di conflitto da sempre suggeriscono: “Come possiamo annunciare il Vangelo in quei luoghi dove l’Italia è ricordata dalla gente del posto come il Paese che vende le armi migliori?”.
Questo stesso interrogativo alla fine degli anni Ottanta ha spinto il mondo cattolico a fare pressione per la stesura della legge 185/90. Certo, le cifre in gioco sono alte. Per esempio: adesso si parla di una commessa di circa nove miliardi con l’Egitto, l’affare del secolo.
Ma con la questione Regeni e Zaki come la mettiamo? Contano più gli affari o i diritti umani? Non vogliamo criminalizzare le aziende e men che meno gli operai: sappiamo bene che un padre o una madre deve avere la possibilità di mantenere la propria famiglia.
Ma i posti di lavoro in gioco in Italia non sono tantissimi: la riconversione di fabbriche che producono armi, con il coinvolgimento di titolari, lavoratori, società civile, Chiesa, sindacati, mondo politico, non è un’utopia. E’ già accaduto alla Valsella di Brescia, produttrice di mine.
D’altronde è in gioco la Vita, oltre al rispetto della Costituzione e della legge 185/90. Non si può cedere al ricatto occupazionale: le armi non sono un prodotto commerciale qualsiasi, come un ferro da stiro. Si tratta di un problema etico da affrontare».
D. Torniamo alla recente revoca dell’export di armi. Si può dire, quindi, che ad oggi l’Italia non venda più ordigni a Paesi in guerra o non rispettosi dei diritti umani?
R. «Magari! Qui c’è “solo” il blocco di un ordine particolare e di uno specifico destinatario. Non è una dichiarazione generale del tipo: “Mai più!”. Il commercio di armi prosegue con tanti altri Paesi ed è fondamentale tenere gli occhi aperti su questo tema. La legge in questione obbliga il Governo a presentare una relazione al Parlamento ogni anno, entro il 31 marzo, nella quale devono essere riportati tutti i dati relativi alla compravendita delle armi: chi produce, cosa produce, a chi vende, quale banca viene utilizzata per la transazione finanziaria.
Questa relazione è un tomo di migliaia di pagine e presumibilmente il parlamentare medio la cestina. Fortunatamente c’è chi la studia con attenzione, anche per Rete Italiana Pace e Disarmo. Da quelle pagine si evince quali sono i Paesi a cui stiamo vendendo armi… e possiamo trarre le dovute considerazioni».
D. Quindi il cammino da fare è ancora lungo…
«Certamente. La macchina della guerra assicura enormi interessi, mentre la pace rischia di essere vista come un pio desiderio… Servono piccoli passi concreti, e l’applicazione della legge 185/90 è uno di questi. Senza dubbio il sogno è quello descritto nel libro di Isaia al capitolo 2: ma i sogni bisogna concretizzarli.
Certo questa legge non è la perfezione. Come diceva don Tonino Bello, che tanto aveva lavorato per ottenerne la stesura e l’approvazione, l’ideale sarebbe un solo articolo: “Le armi non si producono, non si vendono e non si comprano”. Ma la pace è un cammino e spesso in salita. Non bisogna, però, perdere la speranza!
Penso ai missionari che operano nella foresta congolese: non cambiano l’Africa, ma sono una voce, un segno, una testimonianza. Un giorno ci sarà un mondo nuovo, anche grazie a loro. Perché un mondo nuovo è possibile, bisogna volerlo!».
(L’intervista integrale è stata pubblicata sul numero di aprile di Popoli e Missione).