Afghanistan, non solo Talebani: “Paese poverissimo, ma società civile attiva”

"Il nostro auspicio è aiutare chi resta nel Paese a starci al meglio", parla Paolo Beccegato di Caritas Italiana.

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Negli ultimi 20 anni di Storia (e di guerra) il popolo afgano ha lottato per costruire ponti con l’Occidente, contrastare la povertà, risollevare il suo fragile tessuto sociale. E in parte c’è riuscito.

«Nel Paese, a partire dal 2001, si è sviluppata una società civile molto volenterosa e attiva. Sono sorte piccole onlus, associazioni dal basso. Attualmente restano loro il nostro vero interlocutore».

A parlare dell’aspetto meno noto dell’Afghanistan di oggi, minacciato dal ritorno dei Talebani ma anche dalla devastante povertà, è Paolo Beccegato, vicedirettore di Caritas Italiana e responsabile dell’area Internazionale.

«Il nostro auspicio  – spiega Beccegato a Popoli e Missione – è sì quello di favorire chi vuole fuggire dal Paese, ma anche di mantenere in piedi i progetti di cooperazione già realizzati e che Caritas ha avviato con la società civile locale; proseguire su questa strada e aiutare chi vuole rimanere per continuare a sostenere i più fragili, penso ai disabili, alle tante persone che vivono nei villaggi più sperduti e che non possono in alcun modo lasciare l’Afghanistan».

Il vicedirettore di Caritas Italiana ricorda che il Paese conta quasi 40 milioni di persone e che «le evacuazioni tramite l’aeroporto, in un tempo limitatissimo, non possono essere l’unico collo di bottiglia».

In questi giorni abbiamo visto «scene scioccanti di fughe sugli aerei americani, ma per quanto queste fughe siano assolutamente comprensibili, non possiamo far affidamento solo sulle veloci evacuazioni».

Bisogna immaginare una strategia più globale, argomenta Beccegato, che comprenda anche l’assistenza in loco e il proseguimento delle attività di Cooperazione.

Caritas ha fatto costruire in questi anni ben quattro scuole  e realizzato progetti idrici, sempre in accordo con la controparte locale, sempre molto attiva.

«L’Afghanistan non si svuoterà da un giorno all’altro perchè sono tornati i Talebani», dice Beccegato. Semmai si dovrà pensare nel lungo periodo a favorire «le procedure per il ricongiungimento famigliare con la comunità afgana già inserita ed attiva in Italia».

Le evacuazioni di questi giorni riguardano oltre 2500 collaboratori del contingente italiano ad Herat e i loro famigliari e i ponti aerei  che hanno trasferito finora 1600 persone in Italia saranno possibili fino a quando l’aeroporto di Kabul rimarrà sotto il controllo degli Usa. 

Per leggere su questo stesso tema (‘G7 sull’Afghanistan, occidente al bivio. Ma non si può scappare da Kabul’) l’analisi del nostro direttore, Gianni Borsa, per il Sir cliccare qui. 

Infine, a proposito dei corridoi umanitari, Beccegato ricorda che sono uno strumento attivabile solo da Paesi terzi e non dal Paese d’origine di chi fugge; pertanto si potranno aprire corridoi umanitari «con Paesi confinanti come il Pakistan o l’Iran, dove stanno arrivando molti profughi, tramite accordi quadro con Paesi pronti ad accoglierli».

Sarà necessario costituire un’«alleanza di volenterosi» che vorranno far arrivare gli afgani da questi Paesi limitrofi. E tutto questo prevede un lungo impegno diplomatico e un lavoro instancabile dietro le quinte.

(La foto in apertura è di Stefanie Glinski del Catholic Relief Services).